Autobiografia di Davide Scovazzo
Cari lettori di Mondospettacolo, questo è quanto ci ha inviato Davide Scovazzo! Una testimonianza fluviale, intensa, viscerale, che lui stesso definisce il suo “epitaffio”, l’ultima intervista, l’addio al mondo del Cinema. Davide ci ha chiesto di mantenere il testo integrale, senza tagli, perché questa è la sua storia: l’ascesa, il declino, i sogni, le delusioni, i trionfi e le ferite. È un viaggio lungo, come un libro da leggere a intervalli, come lui stesso suggerisce. Non è breve, ma è autentico, scolpito con passione e verità. Accompagnato da foto e video (che impagineremo con cura, citando gli autori dove richiesto), questo è il ritratto di un artista che ha vissuto il Cinema fino all’osso, per poi scegliere di rinascere come Davide, lasciandosi alle spalle “Skovatzo”. Preparatevi: è una lettura che vi scuoterà, vi farà ridere, riflettere e, forse, commuovere. Ecco a voi l’ultima, potente confessione di Davide Scovazzo.

O meglio, “Skovatzo” è morto, e con lui ogni velleità cinematografica, ogni urgenza di “creare arte”, di divulgazione, di narrazione, di espressione semantica ed estetica, e soprattutto di narcisismo. Dal cadavere di Skovatzo è nato Davide, partorito nel dolore in una capanna in un deserto tutto da edificare, e non sa se ci sarà ancora posto per quel pollaio che chiamate “Cinema”, dove è un continuo scontro di ego: io metto i piedi in testa a te, tu li metti a quell’altro, “ma tu chi cazzo sei?”, e ancora “ringraziami”, Marchesi del Grillo ovunque. Apri partita IVA, chiudi partita IVA, tipo Maestro Miyagi. Trova il produttore che vede il tuo teaser e sceglie di produrti il film: eh sì, certo, arrivi tu e sei bello, è la storia di Cenerentola. Allora ti devi autoprodurre, ma da regista devi trasformarti in imprenditore e in esperto di finanza, e magari non lo sei, ti ci devi improvvisare, e in quel mondo è pericolosissimo. Poi, se, come dicono a Genova, cadesse una bagascia in mare, ti venisse riconosciuto un finanziamento, non è che ti facciano un versamento, no, sarebbe troppo bello. Ce li devi mettere tu, quasi sempre tramite fideiussione bancaria (e ti si stringono le chiappe anche solo a sentir nominare questa parola). Poi devi presentare un budget preventivo, che, se e solo se collima con quello consuntivo che presenti a fine lavorazione, allora vieni rimborsato del conquibus, ma chissà come, chissà quando, e chissà se in toto… A quel punto, mi sono detto, citando un noto pezzo di Carosone: “Sient’ammè, chi t’ò fa fà”, e ho pensato, citando il film che, volente o nolente, è il film della mia generazione, “Scegli la vita”. Si può vivere benissimo anche senza essere registi cinematografici. Ai giovani che decidono di intraprendere questa carriera dico solo: NON FATELO. Sono andato a vedere cosa c’è “al di là del muro” e non c’è niente: solo un deserto di asfalto e di cemento, come una scintillante Sharm El Sheikh nella quale tutto sbrilluccica di riccanza, ma a pochi metri della quale muoiono ogni giorno centinaia di persone sotto le bombe, malattie e denutrizione, nell’indifferenza dei poco di buono che coi loro soldi marci là si sono insediati (hai presente la copertina di Crisis? What Crisis? dei Supertramp? Hai voglia a spulciare album death metal, ma quella resterà la più inquietante di sempre…), come una statua romana in quello che sembra marmo antico: poi soffia un po’ di vento, quella cade per terra e scopri che era solo plasticaccia da giardino che va a sbattere contro un red carpet deserto, fradicio di acqua piovana. Certi sogni sono così più belli quando restano tali… Se non sbaglio, è ciò di cui parla la canzone Wasted Years degli Iron Maiden, giusto? Come riuscire finalmente ad andare a letto con Margot Robbie e scoprire che lo fa esattamente come tutte le altre, anzi, magari è pure parecchio moscetta, come un filetto di platessa, e mentre lo fa chatta pure con le sue amiche al cellulare. Il glamour non esiste, anzi: il glamour lo state già vivendo, nelle vostre proiezioni nelle birrerie, coi vostri premietti del cazzo che invece sono gli unici a valere davvero. È ora il rock’n’roll, non nell’ufficio della vostra commercialista. Tarkovsky disse: “Cinema is an unhappy art as it depends on money” (se ci pensi, togliendo i costi di manodopera, la Gioconda, a livello di materie prime, supporto, tela, olio, pigmenti, pennelli, ecc., costa più o meno un millesimo del mio ultimo lungometraggio Tic Toc, il lavoro più hi-budget che finora io abbia girato. Non è completamente demenziale, patafisico, surreale, sbalorditivo?). Ora, non si vive solo di ideologie e “dei mille mille sogni di un bambin”, come nella dolce e rassicurante canzone di Topolino. È fisiologico che a un certo punto una persona debba “desbelinarsi”, ma la volete davvero fare questa vita di merda? O preferite un datore di lavoro che vi faccia un contratto vero, che vi paghi veramente ed entro le scadenze e, quando alle 18:01 di venerdì pomeriggio la serranda si chiude, si chiude, e avete anche un attimino di tempo per esistere? La vostra storia, quella che avete in mente, che volete tanto raccontare al mondo, vale davvero la consunzione, la miseria, il continuo braccio di ferro contro facce di merda, brutte persone, alcune disoneste (devo ammettere che ho incontrato anche e soprattutto tanti amici, colleghi e compagni che nel cuore chiamo fratelli… È all’inferno che si incontrano gli angeli, you know who you are)? Lo scarnificarsi contro il filo spinato di una realtà che va bene che sia dura e complicata, ma lo è davvero troppo, col 95% di probabilità di trovarsi inguaiati, per avvocati, in un mondo in cui non si sa se sia peggio essere debitori o creditori?

Comunque, come il mio quasi-sosia (o viceversa, comunque leggermente più magro, ma è solo questione di tempo) Angelo Duro (che non ho capito se è un genio, il nuovo anti-Zalone o un fuoco di paglia, ma a me piace moltissimo) direbbe: “Fanculo voi e la vostra soglia di attenzione da rincoglioniti da OnlyFans. Se vi interessa quello che scrivo, leggete, sennò andate a leggere da qualche altra parte, ’sti scemi”. Volete conoscere il “magico mondo” del Cinema? Io sono la fine del mondo.

Io nasco in tempi surrealoidi, dell’università, con Pink Film, primo ingenuissimo (infatti geniale, e alcuni mi dicono che sia tuttora la mia “cosa” migliore) cortometraggio, in cui, tutti in fissa con Buñuel, con Jodorowsky, con Arrabal, volevamo non cambiare il mondo come gli “amici al bar” del mio conterraneo Gino, ma unire John Waters ai Giancattivi, Jim Jarmusch a Ciprì e Maresco, Paul Morrissey a Berlinguer ti voglio bene, il surrealismo a Ecce Bombo. E, devo dire, fu un successo sia a livello universitario che festivaliero in tutta la nazione. Vincemmo anche un DAMS Festival nazionale, con una targhetta e un premio da 500 euro. Cinquecento euro a me per aver fatto Pink Film? Wow! Limousine, champagne, altro che quella merda di gintoneria che sarebbe arrivata nel post-Corona (in entrambi i sensi) una ventina d’anni dopo! Ero in cima al mondo, il prossimo passo sarebbe stata la Scovazzo Tower? Ebbe anche una piccolissima distribuzione, in un’antologia chiamata Corti in libreria, che non avrà comprato praticamente nessuno, curata da quel geniaccio di Lorenzo Pecchioni, del quale non ho più notizie. Il mio primo corto, i primi soldi, la mia prima distribuzione. Il mostro stava nascendo, ero “nel giro” (parola che odio), “c’ero”. Ma ai tempi era tutto lustrini e paillettes, il mitico VideoPuntoZero di Torino, il mai dimenticato Genova Film Festival di Cristiano Palozzi e Antonella Sica, sempre nei nostri cuori, piume di struzzo rosa, fidanzate con la cresta dark cotonata, rossetto e gin tonic, chissenefregava di tutto, avevo 23 anni. C’è chi ha un gruppo rockabilly e c’è chi fa il suo primo cortometraggio: il mio punk era quello, ed andava benissimo così.

Poi seguii un pochino la buonanima di Antonio Lusci, che so che conosci anche tu, e a cui ora auguro di riposarsi dagli affanni che lo tormentavano fino allo sfinimento per la realizzazione del suo sospirato film che, e nel suo profondo secondo me lo sapeva anche lui, non avrebbe mai fatto. Era una persona davvero simpatica, ma con lui ho sempre avuto problemi di “karma”. Sarà il suo “strano” buddhismo, sarà che avrei dovuto fargli da aiuto regista per uno dei suoi infiniti progetti che non sono mai andati in porto e si comportava con me con la stessa durezza con cui altri a Roma si comportavano con lui. Forse voleva che gli altri soffrissero come in passato ha sofferto lui. Era di base un uomo buono, ma in lui, per me, si sovrapponevano le figure di sensei e di avversario da battere, e questo decisamente non è sano. Ognuno, dopo un brutto cortometraggio fatto insieme intitolato Domenica e di cui non rimane quasi traccia, ha preso la sua strada. Gli auguro solo la pace che merita e che nell’insostenibile, chiassoso e irrespirabile mondo dei vivi non trovava. Come del resto, chi di noi la trova? (E chi la ostenta di solito è chi l’ha trovata meno, ma non divaghiamo).
Poi venne Durante la morte, il “turning point” dell’horror italiano, di cui s’è fatto un gran parlare negli anni in cui tutti pendevamo dalle labbra di Nocturno. Mi ricordo quando un giorno, tornando da Milano, dove lavoravo, non mi hanno riconfermato un contratto di lavoro a tempo determinato. Così me ne tornai a Genova in treno, comprai Nocturno all’edicola della stazione e c’era un allegato con tutta una disamina sull’horror italiano emergente. C’erano Picchio, Zuccon, forse Tagliavini, sicuro Cristopharo. Io leggevo e sentivo quel “friccico nel core”, ma sano, non invidioso o malmostoso, niente di tutto questo… Era come una “chiamata alle armi”, era come “quello è il mio posto, non quest’ufficio grigio di Assago Milanofiori dove non mi hanno neanche rinnovato il contratto”. Aggiungerei anche un “oh, sì, un giorno ci sarò anch’io”, classico inizio di una tragicommedia su qualche scalcagnata rockstar, hai presente, no? Ma alla fine “ci fui”, cazzo. Tant’è vero che scrissi (ispirato da una frase di Niccolò Ammaniti, che mi diede con grande gentilezza il permesso di utilizzarla nel film: come certi lungometraggi o serie vengono tratti da libri, un corto può venire tratto da una semplice frase che ti ha folgorato, no?) il mio Durante la morte, nel quale ebbi come DoP il grande Marzio Mirabella, che tutti considerano giustamente il miglior operatore e direttore della fotografia sulla Liguria insieme a Luca Massa, che saluto e ringrazio, e come montatore l’amico Marco Paba. È anche grazie a loro che “feci un salto dal punk al pro”. Ebbene, che fece incetta di premi e riconoscimenti un po’ ovunque, mi portò al successo (attenzione! Il successo non è “contare i K”, firmare autografi, lavare i cerchioni della Maserati col Krug Millesimato, quelle sono stronzate da riciclatori di soldi e da coatti frequentatori di Sharm El Sheikh, quelli che ti nominavo prima, che ne hanno travisato completamente il significato. Stiamo all’etimo: “successo” è letteralmente “accumulo delle cose che ti sono successe”, quindi ruote di un Flixbus che girano per 11 ore verso L’Aquila Horror Fest solo per vedere il tuo film in una chiesa sconsacrata veramente in culo ai lupi, organizzatori, roadies, assessori e vicesindaci conosciuti a cena dall’altra parte della nazione che mi dicono: “Lei è quello della sigaretta sui vermi, vero?” (Wow, Durante la morte è arrivato fin là, ad occhi lontanissimi e sconosciuti…), conoscere una ragazza ad una tua proiezione di un tuo film in una città che non rivedrai mai più nella tua vita e innamorartene perdutamente sapendo che non rivedrai mai più neanche lei, essere seduto davanti ai Manetti Bros e farci amicizia a una cena presieduta da Dario Argento parlando di cinema e progetti futuri davanti a un piatto di tonnarelli, non sapere come stipare un premio che magari è di latta ma per te vale mille Oscar in un borsone da viaggio per evitare che si danneggi durante il tragitto, poi di nuovo ruote che girano, altri registi conosciuti a festival veramente validi come il Fi-Pi-Li di Livorno, scambiare opinioni e idee sul cinema davanti a un paio di birre con personaggi come Federico Frusciante, o essere tra i cinque finalisti tra corti provenienti da tutta Italia all’Italian Horror Fest di Luigi Pastore (giuria composta da signori nessuno come Eli Roth, Lamberto Bava, Dario Argento, Ruggero Deodato, proprio robina così…), l’immenso (come compositore e come uomo, riesce a infondere serenità anche a me che sono l’incarnazione dell’ansia) Fabio Frizzi che mi onora dandomi il permesso di utilizzare parte della sua colonna sonora di Paura nella città dei morti viventi per il mio Durante… e poi lui e Silvia Collatina che vengono, in qualità di semplici amici, a vederlo in sala al cinema Barberini a Roma e si conoscono lì! (Il momento più “fulciano” della mia vita). Macchine che ti vengono a prendere e tu ti senti fottutamente un VIP senza mai dimenticare l’umiltà (perché senza di quella, che mi hanno insegnato mio padre operaio e mia madre impiegata, puoi essere Salvador Dalí – no, vabbè, lui forse era l’unico sul quale ho delle riserve – diciamo, che so, Yorgos Lanthimos, ma non vali letteralmente un cazzo. Tutti siamo utili, nessuno è indispensabile. Rispetto per tutti e paura di nessuno, cit. il mio mitologico direttore della fotografia e amico Roberto Girometti, personaggio se leggi la storia del quale non puoi che rabbrividire di fronte a cotanta grandezza ed esperienza). Ma ammettiamolo, una limo che ti viene a prendere a Roma Termini e l’autista, azzimato come neanche la guardia del corpo di Trump, mi dice: “Benvenuto, signor Scovazzo, il signor Bava è già in sala proiezioni e il signor Argento sta riposando nella sua stanza. La porto in albergo”, è quello che gli americani chiamano un ego boost della madonna, no? Mi mise un po’ “sulla cartina geografica” (cit. Giovanni Robbiano). Chiarito cosa intendo per “successo” (Steven Tyler cantava Life’s a journey, not a destination), gira un festival qui, vinci un premio là, ho potuto finalmente dire a me stesso di stare cominciando a “far parte di quel piccolo gotha” dei nomi che lessi su quel numero di Nocturno, con alcuni dei quali collaborai.
Infatti, “annusandoci a vicenda” come cani, guardando l’uno i lavori dell’altro, mi venne la balzana idea di “una riunione di autoproduzioni” da cui nacque Sangue Misto, una specie di “foto di gruppo” da me ideata e coordinata, di quella che era ai tempi la new wave del cinema horror emergente italiano. Hanno partecipato infatti la neofita (ma che ha confezionato uno degli episodi migliori) Isabella Noseda, il grande Raffaele Picchio (Mortituris), il vostro affezionatissimo qui presente, Lorenzo Lepori, che so che ora si sta dando un gran da fare con cinema fieramente underground con la “vecchia” gloria, l’attore Pascal Persiano, il nippofilo iperproduttivo Paolo Del Fiol, il grande Edo Tagliavini (Bloodline con Francesca Faiella e Francesco Malcom), e la meravigliosa Chiara Natalini, che mi colpì per un suo cortometraggio, Mother, a un festival organizzato da Federico Tadolini. E, sfruttando un vuoto lasciato dal genio puro Ricky Caruso (il regista siciliano di Naftalina, forse ultima vera opera surrealista mai vista al cinema, che sulle prime aderì poi, per motivi suoi e che rispetto in pieno, si ritirò dal progetto), si inserì a gamba tesa con una forza e una convinzione di cui le sono grato ancora adesso con un episodio che aveva come protagonista una splendida trans brasiliana che ancora adesso fa parlare di sé chi è stato ed è fan del film.

Perché alla fine le uniche linee guida da seguire erano tre: ogni regista doveva girare il suo episodio: 1) che fosse horror, non importa se fantastico, thriller, gore o affini; 2) doveva ambientarlo nella sua città; 3) doveva ambientare la sua storia all’interno di una determinata comunità etnica. Io, per esempio, ho girato nella mia Genova all’interno della comunità araba, grazie a un finanziamento della Genova Liguria Film Commission ottenuto attraverso un bando a cui potevano, caso più unico che raro (ai tempi non avevo ancora la partita IVA, che ho chiuso pochi giorni fa in tutta fretta dopo mille disavventure, volendo chiudere un capitolo della mia vita a doppia mandata come il libro di Eibon), partecipare anche singole persone fisiche (e io nemmeno ci speravo, ho pensato: “La Liguria è un posto molto ‘anziano’, come età media e come mentalità, mi vedrò passare avanti mille documentari sulle Cinque Terre o tremende rotture di coglioni su come fanno l’olio sulle colline dell’Imperiese, figurati se erogano un finanziamento a un corto che parla di kebabbari cannibali che andrà a confluire in un lungo splatter-gore di episodi provenienti da tutta Italia…”). Forse invece l’idea di inserire un episodio che desse “luce” – decisamente oscura – a Genova in un progetto di respiro nazionale ha vinto e riuscii ad accedere a una discreta sommetta. E un mio attore, Scandar Ayed, a cui è toccata anche la parte più ingrata, ovvero quella del Leatherface/Abdullah The Butcher della situazione, una specie di lottatore arabo mezzo impazzito datosi alla macelleria di carne umana, pur non essendo praticante, mi ha aiutato a sfrondare la sceneggiatura da tutti quegli elementi che avrebbero potuto essere invisi alla cultura musulmana, cosa che trovo giusta perché non era nostra intenzione insultare nessuno, o fare un film di propaganda politica, fosse essa rossa, nera o arcobaleno. Sapendoti inoltre sabaudo, ho una “chicca” per te e per i tuoi lettori: il mio caro fraterno amico personale (e ottimo attore), il torinesissimo Johnson Righeira, popstar leggendaria con un piede negli anni ’80 e un altro perennemente nel futur(ism)o, ha accettato di buon grado di partecipare al mio episodio in veste di vittima che viene “sedotto e macellato”. E già ero molto felice perché io adoro i “camei d’autore”, ma, come se non bastasse, ha insistito lui per apparire in nudo integrale, dimostrando non solo una grande professionalità (gustatevi i primi piani quando viene preso a pugni o il terrore nei suoi occhi quando vede avvicinarsi il “macellaio” arabo e capisce che ormai il suo destino è ineluttabile), ma anche una totale dedizione alla causa, un pizzico di esibizionismo che non guasta mai (poi è stato a me non indugiare in primissimi piani e dettagli che sarebbero stati stupidamente volgari, ma restare sul piano americano) e totale adesione alla realtà. Parole sue: “Quando macelli una vacca, mica la macelli in bikini, no?”. Non fa una piega. Era bellissimo vederlo aggirarsi nudo per il backstage perfettamente a suo agio, come se fosse nella doccia di casa sua, sorseggiando il suo amato Brancamenta, che feci arrivare apposta per lui, e chiacchierando con mia madre, con Cristina Origone, scrittrice thriller-noir di Genova e mia amica, che ci ha dato un suo appartamento a disposizione per allestire il set/mattatoio. Nessuno come lui. Atmosfere irripetibili.

Sangue Misto, pensa un po’, nasce da una mia personale esperienza: vivevo da solo alle porte di Milano, e sul metrò conobbi una ragazza nigeriana. Attaccò bottone lei, era davvero carina, socievolissima, fin troppo. Subito numeri di telefono, ci vediamo, qua e là. Ci rivedemmo, le offrii una cena, andammo a casa mia. Fast forward per bon ton verso una signora. Ci frequentammo un po’, sembrava tutto perfetto, a metà tra il film romantico perfetto e il film, scusate, porno perfetto. Diciamo erotico. Era un idillio, anche perché era un periodo in cui ero impallato con film come Il serpente e l’arcobaleno di Craven, ma anche Cobra Verde di Herzog, amavo quel genere di atmosfere… A un certo punto mi disse: “Vieni con me. Ti devo portare in un posto molto importante per me. È la mia chiesa”. Boh. Io sono stato cresciuto da ateo (mi hanno portato fino alla Comunione, poi “fai quello che vuoi”) in un paese cattolico, va bene, andiamo in questa chiesa. Mi porta dietro piazzale Loreto, inizio via Padova, in un tabacchino. “Siamo arrivati” (???). Mi fa scendere in un sottoscala, c’era uno stanzone pieno zeppo di gente con un predicatore che urlava. Io ero l’unico… oh, diciamolo, bianco. Oh, datemi del razzista, ma l’ho pensato: “È stato troppo facile con questa ragazza, per quello ho usato il termine ‘porno’ e non ‘erotico’ prima. Non ne faccio un noiosamente virile vetusto vanto, ma davvero non c’è stato bisogno di corteggiamento, era tipo un ‘Andiamo?’ detto da lei. ‘Come no!’”. Troppo liscio come l’olio. Stai a vedere che davvero lei era un’esca e serviva loro un coglione bianco per… che cavolo volessero fare, io non lo volevo neanche pensare? Avevo seri dubbi che ne sarei uscito vivo, giuro. Invece ho scoperto che era una sorta di messa cristiana, ma praticata a modo loro, quindi senza le lagnose litanie dei nostri melensi preti, ma in una maniera iperteatrale, voodoo nei modi ma del tutto anti-voodoo nel contenuto, anzi, fatta apposta per disintossicare la loro mente dal voodoo con cui molti negrieri della loro merdosissima mafia nigeriana tengono in scacco le loro menti. Nel loro incomprensibile Nigerian English capivo roba come: “All the voodoo in your life will be destroyed by God Almighty by the force of fire, praise the Lord, AMEN!” e tutti a gridare AMEN! A molti si rivoltavano gli occhi all’indietro, lasciando solo la cornea; una signora incinta è stata “benedetta” con dell’olio santo (in realtà normalissimo olio Carapelli sul quale l’autoproclamato sacerdote aveva sciorinato qualche benedizione nella sua lingua), si è letteralmente gettata in terra e ha iniziato ad essere presa da convulsioni (una donna incinta, ero preoccupato). Poi il predicatore, a forza di “Go away, Satan! Leave this baby alone!”, l’ha calmata, si è alzata come se niente fosse, lei lo ha abbracciato piangendo, piena di gratitudine… E da qui ho pensato: “Ma guarda te cosa accade a pochi metri dai nostri stessi passi, sotto un normalissimo bar-tabacchi nel centro di Milano, nelle città che crediamo di conoscere così bene…”. Infatti, anche per questo credo che Sangue Misto vada rivalutato: perché, rivisto oggi, vale milioni e perché oggi, con ’sta cultura woke di merda, un film come Sangue Misto non si potrebbe più fare. Già ai tempi in cui girai il mio episodio fu l’epoca di Charlie Hebdo e del Bataclan, figurati adesso, coi maranza, l’islamizzazione, la Cisint che deve girare con una scorta che manco il Papa e la Sardone che riceve tutti i giorni minacce di taharrush gamea, la percezione (vera o non vera che sia, non sta a me dirlo, comunque io nei vicoli di Genova ci passo tutti i giorni) del pericolo di un’invasione e di una guerra culturale… Già ai tempi molta gente, vedendo la sceneggiatura, si spaventò e per “motivi ideologici” fece un passo indietro. I più intelligenti ed aperti di mente (che ancora ringrazio: il tunisino Scandar Ayed, l’egiziana Shadia Nour Salem e l’iraniano Babak Tcheraghali… e l’imperiese Enrico Luly, eh eh) invece capirono al volo, e a film montato non volò una mosca perché il “messaggio” (che poi, chi sono io per mandare messaggi all’umanità che pende dalle mie labbra? Diciamo “gli intenti”) arrivarono puliti ed inequivocabili, e li capirono sia gli spettatori che gli altri registi che abbracciarono il progetto. Oggi, come ti muovi, offendi, non si può più dire niente, siamo tutti “in vitro”, asettici, germfree adolescents (cit.), passati sotto il microscopio, non si può più dire un cazzo, non si può più fare un cazzo, mentre quello che non è stato capito è che Sangue Misto, essendo un film né xenofobo né xenofilo, è un film sia xenofobo che xenofilo. Infatti ne usciamo di merda (quasi) tutti: i “cattivi” siamo sia (bruttissima divisione che uso per una sintesi che, starete capendo, non ho) “noi” che “loro”, va da episodio a episodio, ma è interessante quanto noi italiani stessi veniamo descritti come una massa di drogati, puttanieri, ubriaconi, mafiosi, addirittura omicidi, fedifraghi, perdigiorno, sfigati, vittime ma spesso carnefici. Il mondo è brutto. Homo homini lupus, non importano più etnie o altro, siamo già oltre il razzismo, oltre l’autocensura, oltre il woke. Dieci anni fa. Ma soprattutto, lo affermo con certezza e senza alcuna spocchia, abbiamo anticipato di un decennio il discorso di Mainetti: prendi La città proibita (senza ovviamente alcun paragone tecnico, di produzione e di budget): è esattamente dove arrivai io, che sono un genio (l’importante è che qualcuno creda che io ci creda e vi ci voglia far credere…), con la mia “crew” (i meravigliosi registi di cui sopra), 10 anni fa con Sangue Misto (però questo è vero, ovviamente non ad episodi e paragonando 7 barche a remi a un transatlantico). Il “concept” è quello, scena iniziale dell’immenso Mainetti: rissa della madonna in una specie di gabbia per schiave cinesi gestito da cinesi, poi tutto si sposta in una cucina piena di cinesi e poi nella sala del ristorante cinese frequentato da cinesi, ragazza scappa, esce dal ristorante, insegna del ristorante in italiano, uomo in motorino che frena: “Ma li mortacci tua!”. E questo, in un solo dolly finale, è la sineddoche (senti come sono colto, eh…) del nostro film (ovvero: noi non lo sappiamo, ma nelle nostre città che crediamo di conoscere si nascondono dei gangli di culture importate, con i loro pregi e i loro difetti e i loro rituali ancestrali, che si sono insediati qui agli occhi di chi non sa o non può o non vuole vedere, e “vivono tra noi”). BOOM!

E qui, grazie al lavoro dell’illuminato Giacomo Ioannis e della sua Home Movies che ha creduto in noi, siamo usciti in DVD e Blu-ray (sia “normali” che “versione deluxe” con altri extra, making of, interviste, ecc… piatto davvero ricco). Quindi, in un mondo spietato dove esisti come “artista” solo se “hai un codice a barre”, ma è così che purtroppo deve essere, non me ne vogliano i madonnari e gli intrecciatori di collanine per strada, contro cui non ho nulla, mi sono detto: “Quindi finalmente esist(iam)o!”. Da quel giorno, spiacente per chi mi detesta e per coloro ai quali sto sulle balle, se esistono (ancora): per la legge io sono un regista.

Davide Pesca, “collega” meno depresso, meno disilluso e molto più innamorato di me della settima arte, che fa perché ama farla e non si è perso in un limaccioso labirinto come me (mentre annegavo ho incontrato anche Artax, il cavallo di Atreyu, mezzo annegato, volete che ve lo saluti?) fatto di “ma è davvero questo che voglio dalla vita?”, nel quale sto annaspando io adesso, mentre sto ripulendo la mia vita da troppi “parassiti senza dignità” (cito l’autentico angelo fatto carne Franco Battiato, con cui ho in comune l’aver diretto la divina, bionda, luminosa donna d’arte e attrice ottima – volevo dire “skillata”, ma non mi sarei permesso di sporcare questa elegia con simile turpiloquio – Chiara Conti, e una – per lui doppia ed enorme, per me unica e piccolissima – collaborazione con Alejandro Jodorowsky: in occasione del Festival Internazionale della Poesia di Genova lanciammo dalle finestre di Palazzo Ducale centinaia di fogli con nostre poesie, mentre il mecenate delle arti e delle lettere Claudio Pozzani, vestito da aviatore, declamava versi suoi e di altri poeti col megafono. E poi Jodo mi ha “prescritto” anni dopo un “atto psicomagico” nel quale avrei dovuto vestirmi da clown, andare al Cimitero Monumentale di Staglieno, qui a Genova, a cinque minuti da casa mia, sai, quello famoso per le copertine dei Joy Division, oltre che per le tombe di Mazzini e della moglie di Oscar Wilde? Ecco, poi piangere acqua santa tramite delle pompette e scrivere “Amore” col miele d’acacia sulla tomba di mio padre. Ovviamente non l’ho mai fatto. Mi immagino le facce dei becchini che, poveri cristi, lavorano seriamente lì dalle cinque e mezza del mattino, vedere sto scemo vestito da pagliaccio e dirsi tra di loro: “Tòu lì, ghe manchièiva pure l’abbelinòu de mattìn fìtu!” ah ah… Poi so che Jodorowsky ha recitato in un film, Ritual, con l’attrice Desirée Giorgetti, sexy, bravissima, androgina, buddhista, cinemasochista, protagonista dell’episodio di Picchio di Sangue Misto… Vedi che alla fine tutto in qualche modo torna e “chiude un cerchio”?)… “Parassiti senza dignità”, dicevo, che in questa palude mi hanno portato. Davide Pesca, comunque, mi ha invitato a prendere parte nel suo film a episodi 17 a mezzanotte con un corto il cui budget non arrivava a 400 euro, che misi di tasca mia, Tutto il male del mondo.
In esso, un’assassina, l’autenticamente splendida Elisa Navacchi (un perfetto mix tra Grace Kelly e Kim Novak, con una spruzzata di Clarissa Burt… Hitchcock e Nuti sarebbero andati in sollucchero), uccide delle persone. Perché? Boh. Rompereste forse le balle a De André chiedendogli perché, nella sua Il pescatore, sublime (ma un genovese non ne può veramente più) narrazione della Santissima Comunione, l’assassino è un assassino? No, il pescatore, senza chiedergli perché e percome, prese il vino e spezzò il pane per chi diceva “ho sete, ho fame”. Troppo comodo, secondo me. Infatti, proprio la notte di Natale, dopo questo massacro (forse commissionatole, non si sa…), la donna incontra la Vergine Maria, interpretata (ovviamente, per chi conosce bene me e quello che mi permetto senza superbia di chiamare “il mio cinema”) da uno strepitoso Enrico Luly, che le offre il Corpo di Cristo (un Gesù bambino che è stato il “prop” più costoso del budget) e il Sangue di Cristo (un Tavernellaccio in tetrapak), che lei sputa con sdegno. È un’assassina, quella è la sua natura, anzi, è la natura che Dio stesso ha scelto per lei, quindi non si farà tentare dalla “trappola” dell’Eucaristia in extremis come fece il mangiapreti Lionel Stander in Per grazia ricevuta (si parva licet). No: accetta la sua natura e affronta fino in fondo le sue conseguenze, siano pure la dannazione eterna a cui va incontro sparandosi in bocca per “fare una cosa rapida e indolore”, stufa di tutto questo schifo. Proprio per questo il Signore la perdona e alla fine la accoglie nel Regno dei Cieli, “assolta per adamantina coerenza”, e nel cielo scoppiano fuochi d’artificio e appare l’angelo che viene a prendere la sua anima per portarla verso la pace che non ha mai avuto in vita.
Ben altro discorso merita Tutto il bene del mondo. Si trattava di un corto confezionato per la trasmissione di Rai 5 Tutto in 48 ore, che funzionava più o meno così: una troupe RAI girava per le varie città d’Italia, riunendo due troupe di “semiprofessionisti” del “giro” del cortometraggio, e lanciava loro una sfida: ogni troupe doveva estrarre da una giara un genere (a me, per la felicità del mio fonico, che per essere presente rinunciò a un lavoro di 2 giorni pagato, uscì “film muto”; all’altra troupe, il cui regista era un certo Fabrizio Denaro, uscì “commedia”). Dopodiché, la produzione ti dava tre input da inserire in un corto, che entrambe le troupe (quindi due corti) dovevano realizzare in 48 ore, dall’inizio del soggetto alla fine del montaggio, e gli input erano una frase: “Lei non sa chi sono io”, un personaggio: “Gianfranca Maurelli, la shampista” e un oggetto (una chiave). Io mi sono affrettato ad inventare una storia (che avevo già in mente, ma non, come ha insinuato l’avversario, perché qualcuno mi avesse imbeccato… Voglio dire, trovami un regista o aspirante tale che non abbia la testa che gli esplode di soggetti, trattamenti, sceneggiature, idee, inquadrature… Boh. Evidentemente, quando hai gli occhiali sporchi di… vedi tutto marrone) che cominciava esattamente dove La passione di Mel Gibson finiva, ovvero quel mitico “passo” di Cristo fuori dal suo sepolcro per andare a spargere il suo Verbo d’Amore nel mondo. Mi sono chiesto: se io provassi ad andare in giro a dire solo cose belle al mio prossimo, il mio prossimo come la prenderebbe? Ci ho anche provato un paio di giorni, per prepararmi al film (non per dire, sempre con umiltà e senza gonfiare il petto, ma so che c’è una specie di performer che pubblica suoi video sui social in cui fa la stessa cosa adesso, come una specie di candid camera; noi eravamo avanti a lui almeno di 15 anni – perché Tutto il bene del mondo è precedente a Sangue Misto e anche a Tutto il male del mondo, siamo eterni precursori, spero che un giorno la storia se ne accorga, ma se n’è già accorta per quanto me ne cale, non ho bisogno di altra vanagloria…). Ora, Cristo (sempre un Enrico Luly, talmente sopra le righe da farsi uomo-macchina e tornare “dentro le righe” secondo un metodo inspiegabile a parole che conosce solo lui e vale solo per lui, come l’indimenticato Bobò di Pippo Delbono) torna sulla terra, ma… sapremo riconoscerlo? Infatti viene costantemente travisato, dice a tutti: “Lei non sa chi sono io, ma ti voglio tutto il bene del mondo”. Messaggio solo di positività, no? Due ragazzine che si baciano (Mamma Rai censurò questa scena di pulitissimo e innocentissimo amore omosessuale, poi sono io il reazionario nemico dei diritti LGBTQ+, vero? Ma quando mai, ma finiamola… Mi incazzai così tanto, anzi…) lo prendono per scemo, lo deridono e lo scacciano via; una pazza che crede di essere una shampista lo ignora e continua a parlare da sola; una donna crede che sia un’avance di un maniaco e gli dà una ginocchiata nelle palle; una donna di strada (una straordinaria, superba Elda Alvigini, che è molto di più de “la preside de I Cesaroni”) che legge le sue analisi e scopre di essere sieropositiva, del bene di Cristo se ne fa ben poco, gli tappa la bocca con le sue analisi del sangue e lo spinge via, e avanti così, fin quando Cristo si ritrova solo e rifiutato dalla razza umana. A quel punto arriva “un altro Cristo” (uno straordinario Nicola Zunino, attore-burattino che dà il 100% del suo corpo alla scena; il momento in cui crolla a terra è la caduta migliore della storia del cinema, letteralmente un Pinocchio a cui vengono tagliati i fili. Pochi lottatori professionisti di wrestling saprebbero fare lo stesso, o forse nessuno. Applauditissimo. Anche lui decostruisce sé stesso per ricostruirsi “di là”, altro “man-machine” dalla però vastissima e variegata gamma di espressioni che va oltre il cinema muto, il perfetto complemento di Enrico Luly, con il quale si contende “il volto” del mio cinema). Ebbene, lo incontra e Gesù Cristo (Luly), fattosi uomo, avendo capito che in una società cinica, sospettosa e disillusa come questa, fare e dare del bene senza aspettarsi nulla in cambio non solo è impossibile, è inutile, attua su di lui l’azione più umana e che più rende l’uomo uomo: l’omicidio. Doveva esserci anche una scena in cui Luly, innocentissimo, fa i complimenti a un bambino in un parco, usando la solita frase di rito: “Tu non sai chi io sia, ma ti voglio tutto il bene del mondo”, ma il papà, ovviamente, lo scambia per un untuoso e malintenzionato pedofilo e lo gonfia di botte, travisando per l’ennesima volta la sua volontà di regalare dolcezza e positività senza volere nulla in cambio. Ma, non potendo, altro diktat RAIesco, usare attori minorenni, fui costretto a tagliare tutta la scena. Vincemmo le nomination a miglior sceneggiatura (la mia), miglior fotografia (Andrea Languasco) e miglior colonna sonora (Stefano Agnini, il fonico “lasciato a casa” per problemi di forza maggiore). Alla finale, che si svolse a Cinecittà, non vincemmo (vinse tutto Adriano Giotti, col quale diventammo amici, che in seguito girò un bel film chiamato Sex Cowboys, titolo fighissimo, e un corto che, neanche a farlo apposta, si chiamava Tik Tok Star!), ma chi se ne frega: in quell’occasione, insieme a varie personalità dello spettacolo (Paolo Calabresi, Gianmarco Tognazzi, Giampaolo Morelli – dico: Coliandro, minchia… bestiale! – Chiara Conti, ecc.), conobbi Daniele Ciprì, quel Daniele Ciprì, che era in giuria e che aveva (ma per quello era ovviamente fuori concorso) lavorato alla fotografia del cortometraggio della sua fidanzata che era in concorso. Mi prese da parte per uno spumantino, chiacchierammo un po’, io gli nominai entusiasta alcuni suoi cortometraggi che non ricordava nemmeno di aver fatto (Venerdì Santo, Sabato Santo, Pasqua di Resurrezione), e mi disse che, escludendo quello della sua donna, circa il quale era ovviamente super partes, tra tutti i cortometraggi che aveva visto – ovvero tutti, essendo in giuria – il mio, Tutto il bene del mondo, era il suo preferito, con lo stesso stile ad inquadrature fisse che adottava durante il suo sodalizio con Maresco a Cinico TV e che ben si adattava al genere che mi era toccato, “film muto”, i volti scavati, grotteschi e sofferenti dei miei protagonisti, il mio stile ipercromatico, ottimo contraltare al suo magistrale bianco e nero… Cioè: Daniele Ciprì in persona mi stava dicendo che il mio era il suo corto preferito tra tutti i corti provenienti da tutta Italia? Fuck’s sake, quello era il mio premio, chi se le cagava le nomination, io è quello che mi sono portato a casa, e che mi rimarrà per sempre indelebile nel cuore! Vedì: il successo, le cose che ti sono successe, macinando vita su vita… Preferirei essere beccato a rubare una mela al supermercato perché ho fame che cercare di corrompere una giuria, quello è il crimine più insulso che si possa commettere, come comprare tutti i biglietti dell’Enalotto esistenti così sai che vinci. Invece queste sono le vere vittorie. Io odio i “vincenti” tanto quanto amo i vincitori. E quella sera, cazzo, se lo fummo, anche se non portammo a casa nessuna statuetta.
Poi, millenni dopo, ci fu Dracula. Riprendendo dalle note di produzione che inviai per partecipare al bando (grazie all’illuminato appoggio della TelevideoLiguria del maestro Alfredo Cretti, al quale non sarò mai abbastanza grato, insieme a suo figlio Mattia, mio operatore e DoP insieme a Luca Bozzo) indetto dalla Genova Liguria Film Commission grazie a finanziamenti dell’Unione Europea, e che vinsi per “la preproduzione di un lungometraggio”, il cui budget utilizzai tutto per la realizzazione di questo teaser da far girare per mercati e case di produzione vere e serie, sempre che ne siano rimaste: il pubblico non è mai stufo di Dracula.
In Italia si parla da molti anni di “rinascita dell’horror italiano”, ma non è mai rinato davvero. O meglio, è rinato e rimorto. Tanto della mia “leva” s’è capito chi lo doveva fare di mestiere e lo sta facendo, e chi legge lo sa, il resto sono quelle che a Genova chiamiamo “musse”. C’è, sì, ricerca di trame sempre originali e sperimentazione con il mezzo tecnico, diventato sempre più user-friendly e con standard sempre più elevati, ma l’horror italiano moderno sembra non riuscire a uscire dall’underground e a liberarsi da quella patina di amatorialità, di “film fatto tra amici” che non raggiunge il grande pubblico, l’“uomo della strada” che ancora non percepisce un prodotto straight-to-video e realizzato con zero budget come un “film vero”. A 44 anni ti chiedono ancora se hai fatto “il filmino”, percependo Il gladiatore come Perfetti sconosciuti come “film”. Boh.

In poche parole, non c’è commercio. Tra registi e attori, i film “ce li compriamo tra di noi”, e ancora grazie a piccole etichette che permettono una distribuzione, seppur in piccoli numeri, seria e curata dei prodotti home video del settore. Si tratta di uscire da questo hortus conclusus, arrivare al pubblico reale, che “sta lì fuori”, e portare a casa numeri grossi e degni dell’investimento che sarà stato fatto. Uno degli ultimi film di Dario Argento è stato Dracula 3D, e ai tempi su Netflix era in programmazione una serie tratta da Dracula, seppur con ampie libertà rispetto al romanzo, decisamente imbarazzante. Ma sia il film che la serie non hanno riscosso e non stanno riscuotendo buon successo, a causa di uno stile molto moderno e infarcito di computer graphic, luci errate, attori per nulla convincenti. Ma se il pubblico è rimasto deluso, significava che aveva ancora voglia, “sete” di Dracula, ha cercato qualcosa in esso, e questa fame non è stata saziata. Qui abbiamo provato a inserirci noi.

Innanzitutto, andando in totale controtendenza rispetto al cinema horror attuale: Dracula, infatti, non sarebbe stato un film horror. C’è da pensarlo più come l’adattamento di un classico. Pensavo: “Il cinema moderno gronda kilolitri di sangue? In Dracula ce ne sarà pochissimo, e mai usato gratuitamente e fuori luogo”. Il cinema moderno propone colori spesso saturi e una fotografia esageratamente sgargiante fino a sfociare nel televisivo? Dracula sarà girato in bianco e nero, contrastato, duro come la roccia, freddo, “materico”, elegante, come ai gloriosi tempi di un Tod Browning, ma adattato alle moderne tecnologie digitali (opera dei miei due autenticamente magici DoP di cui sopra e del colorist Pierluigi Gori). Il cinema moderno propone movimenti esagitati di camera a mano e montaggio mutuato dal videoclip? Dracula avrà una regia semplice e sobria, austera, come è il castello di Dracula (che merita un discorso a parte), più affine a vecchi “sceneggiati” RAI (p.e. Il segno del comando) e il ritmo sarà chirurgicamente reso sia in montaggio, che dalla regia stessa, che non dalla performance degli attori, per cui ho voluto non meno dell’aristocrazia di ciò che fosse a me possibile. Innanzitutto, Dracula: Franco Leo. Che dire su Franco Leo? Due su tutte: per decenni è stato braccio destro (non una comparsa, sia chiaro: attore con cui non faceva altro che duettare, col nome sul cartellone scritto grosso così) di un autentico signor nessuno come Carmelo Bene, notorio per andare e far andare i propri collaboratori oltre la follia, oltre il lavoro della recitazione, ché tale già più non era, per farci a botte sistematicamente, per andare oltre il capolavoro “togliendo” di scena. E Franco Leo è il mio unico Dracula possibile, glaciale, gelido, bellissimo già così com’è, senza l’ausilio di doversi camuffare in un Gary Oldman venticinquenne. Paragonare un attore a un carciofo è la cosa più idiota che io abbia mai fatto in vita mia, ma è (nella vita come nell’arte) come uno di quei carciofi esternamente verde scuro tendente al nero; poi, sfrondando di strato in strato – ma sono diecimila gli strati – si arriva ad intravedere una sorta di cuore tendente al rosa, ma la sua corazza non ha nulla di difensivo, è solo l’armatura irta di borchie appuntite di cui si veste (e non traveste) un autentico gentiluomo di altri tempi. E l’ho visto da come tratta le maestranze e soprattutto le attrici. Poi è stato amico personale, compagno di set di diversi western (uno su tutti: Due volte Giuda di Nando Cicero) di quell’altro personaggino facile facile che era Klaus Kinski, e del quale mi ricordava nottate di bisbocce e affinità nella visione “solare” e “ottimista” della vita. Diamine, il “mio” vampiro è stato il “Cristo vampiro” che cerca invano di autocrocifiggersi per il divino Carmelo e amico fraterno del “Nosferatu/Dracula” per eccellenza a cui mi rifaccio, con buona pace del bolso e gonfiotto Lugosi e del male invecchiato Christopher Lee? Wow! Franco Leo, sia a camera accesa che a camera spenta, è un autentico Signore del Buio, domina oceani di oscurità, eppure ha un affilatissimo senso dell’umorismo, incute terrore e al tempo stesso ha un savoir-faire che nelle generazioni più anagraficamente giovani te lo scordi. Sgrana gli occhi iniettati di sangue, poi ci invita tutti nella sua sontuosa villa che domina tutta la bellissima Pieve Ligure, profumata di mille vite (s)vissute, stravissute, non-morte. Magari urla e fa tremare anche me che lo sto dirigendo perché non si piace da solo in un take, poi si preoccupa perché un’attrice, che magari non dovrebbe neanche essere lì, ha freddo e bisogna coprirla con un plaid… Un oscuro, affascinante mistero. Dracula, l’unico. Non riesco a pensare a un altro per quel ruolo. Poi, l’attore genovese da esportazione per eccellenza, Andrea Bruschi: come Clarice disse di Lecter: “Non c’è un nome per quello che è”. Basti vedere la sua filmografia [https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Bruschi] per far tremare i polsi a molti improvvisati. Lui è il David Sylvian/Peter Murphy solista di Genova con il suo gruppo “Marti” e vanta una carriera TV e cinematografica di grande rispetto. Da molti anni siamo amici e, quando finalmente abbiamo collaborato, molti, a Genova, amanti del buon cinema e del “sottobosco underground vicolano” nostrano, hanno finalmente sospirato: “Scovazzo e Bruschi? Era ora!” e ho trovato in lui la professionalità e la tecnica che sapevo con la massima certezza che non mi avrebbe mai fatto mancare. Poi, lei, la divina, l’ossimoro, Chiara Conti! Perché ossimoro? Perché, se Hitchcock definì Grace Kelly “ghiaccio bollente”, io definisco lei “carne impalpabile”. Ora bestemmio, ma è quanto di più sensuale, sexy, eppure spiritico: sembra fatta di borotalco, di piume. Può esistere qualcosa di paradossale come trovare eccitante e desiderare di andare a letto con la Madonna? Voler fare l’amore con un angelo? È ieratica al punto che sembra camminare senza toccare terra, poi a cena ride e scherza e si gode il Vermentino e il pesto delle mie parti come poche. Unica. Poi è un’artista a tutto tondo, esegue xilografie, litografie da vera maestra, una donna che nella stessa vita, da Non è la Rai a Jodorowsky (anche qui, ritorna…), passando per Alex Infascelli, ad Argento, alle scorribande artistiche “che usavano il cinema come mezzo” del grandissimo Battiato, a Bellocchio, a Scovazzo, capisci cosa significa anche per me? Ecco qui il suo palmarès a cui attingere [https://it.wikipedia.org/wiki/Chiara_Conti]. Eppure è “una di noi”. Mai ho intravisto nei suoi modi la superbia e il sussiego che ho visto permettersi da persone che hanno fatto un quindicesimo di quello che ha fatto lei. Sta molto sulle sue, non per alterigia, ma perché concede confidenza col contagocce. Ma, quando lo fa, si mette nelle tue mani, socializza, si scioglie e diventa burro fuso, anzi, altro ossimoro, marmo fuso. Ho voluto l’esatto contrario della perennemente catatonica, “in stato di stupore” e svenevole Isabelle Adjani, deliziosa e squisita, ma la cui recitazione nel film di Herzog è invecchiata malissimo, come Stephen King quando ha ripreso in mano il suo Shining per quel remake per la TV e rivoleva la “sua” Wendy al posto di Shelley Duvall. L’ho (ri?)voluta bionda, “potente”, volitiva, meno “vittima” e più “parte attiva del tutto”. Le ho addirittura fatto recitare una poesia, perfetta per la voice-over del teaser di Dracula, che mi dedicò la giornalista e scrittrice (e attrice, cercate i cortometraggi Alexa e Sette scialli insanguinati) Roberta Gambaro, in un momento su cui è necessario e cortese far cadere il più rigoroso “silentiVm”. Ho imparato molto da lei sul professionismo in un’attrice, lo stesso che ho trovato nella neodiva in perenne e fulminante ascesa, la tosco-genovese Fiorenza Pieri [https://www.imdb.com/it/name/nm2930089/], partita (quasi) dal mio cortometraggio Durante la morte fino ad avere ruoli sempre più sostanziosi in film e soprattutto fiction di grande qualità (una su tutte, Blanca, e numerosissime produzioni che, come al solito, girano a Genova e vengono da Roma). Ha lavorato con i più grandi fino ad essere lei, una de “i più grandi”, e dimostra che “lacrime, sudore e sangue”, lavorando al sacco e con molti sparring, valgono molto di più di mille raccomandazioni e porte aperte dal papà sottosegretario quando sei una spelacchiata cagna malata. Lei no, è un’attrice che rispetto, una supernova che si è guadagnata a suon di pugni il ruolo (per me ancora poco rispetto a quello che meriterebbe, ma il tempo e la capacità ci sono… Oltretutto, provate a darle un’età!). A teatro, in Romeo e Giulietta (lei era Giulietta, per l’appunto, non una fantesca che passa un attimo con un pitale in mano), era da brividi. Ho pensato: “Belin, e adesso come cazzo faccio a dirigere questa dea? Mi è scoppiato un monstrvm in mano!”. Poi ha lavorato con Alberto Bogo, il mio “acerrimo amico” di Genova, quello che molti vogliono vedere come il mio rivale, Scovazzo/Bogo, Fulci/Argento, Mötley Crüe/Guns N’ Roses, Beatles/Rolling Stones. Invece regna amicizia sul piano umano e rispetto reciproco a livello artistico. Ed è stata felice di interpretare l’”incarnazione femminile” di Dracula che seduce Jonathan Harker… Una vera amica che merita il meglio. E lo sta avendo. Poi, Nicola Zunino, il mio già citato attore che fu addirittura “più Marinelli di Marinelli” (li vidi insieme!) quando lo scelsero come figurante a Boccadasse ne Il principe libero, quando girarono la scena in cui De André conosce “Il pescatore” (tutto torna, tutto! Vedete?). Io c’ero, poi rimasi amareggiato nel vedere che nel montato finale lo hanno ripreso solo di schiena in campo lungo! E poi il mio “attore-firma” Enrico Luly, che mi ha restituito un recalcitrante Renfield mangiavermi, fuori come un poggiolo, ma di una “entusiastica pazzia controllata” che, me lo si conceda, asfalta completamente Sua Maestà Tom Waits nel film di Coppola, con la sua iper-recitazione ciockonesquikkosa e superfumettosa. Poi volli Mery Rubes, famosa per essere “la vampira nascente” del cinema underground italiano, musa di Davide Pesca e soprattutto di Roger Fratter, la Lina Romay/Soledad Miranda italiana. Facemmo sopralluoghi ovunque nelle campagne dell’entroterra ligure, come vanno fatte veramente bene le cose, in maniera professionale, come Cretti e Bozzo sono, in modo che io potessi stilare una mia shotlist quanto più chirurgica possibile, da cui pianificare un ordine del giorno, un piano di lavorazione, che infatti non abbiamo bucato di mezzo minuto. Oltre al mitico Cimitero Monumentale di Staglieno (quello “delle copertine dei Joy Division”, nei pressi delle quali ovviamente abbiamo girato) e nella sempre ospitale Villa Durazzo Bombrini, sede della Genova Liguria Film Commission, la vera sorpresa è stata Campo Ligure. Abbiamo trovato questo castello, a Campo Ligure, assolutamente perfetto, il cui giardino, ma anche i cui interni, erano tempestati di statue dell’artista locale Gianfranco Timossi, che abbiamo fatto in tempo a conoscere prima che passasse a miglior vita. Caddero a tutti le mandibole. Sembravano davvero fatte apposta per una produzione che avesse un sacco di soldi. Sono quelle che si vedono all’inizio del teaser; davvero, non riuscivo a crederci. Dovevamo girare lì, le forze che si autoconglomerano all’infinito (io non credo né nel caso né nella volontà di Dio) ci “stavano dicendo” che Dracula s’aveva da fare. Guardatele, ho pensato subito alle Momias de Guanajuato di Herzog. Ci ho messo giorni per riprendermi dallo shock dovuto all’entusiasmo e allo stupore. Siamo, anzi, saremmo stati davvero su un altro pianeta. Il nostro Dracula avrebbe visto la luce e avrebbe infettato il mondo!

Mai parole furono scelte peggio. Vi dicessi due giorni dopo, tre giorni, quattro giorni, ma il giorno dopo l’ultimo ciak del teaser, giornali, TG e web strombazzarono l’inizio della draconiana Fase 1: non si poteva più fare altro che non fosse barricarsi in casa, vaccinarsi o decidere stoicamente di non farlo, annullare i nostri volti e la nostra respirazione con quelle stramaledette mascherine e aspettare che qualcosa succedesse. Il mondo si è letteralmente bloccato. Un giorno dopo la fine delle 所以 di Dracula. Ora, non per dire, ma ripeto sempre ad nauseam che nel “mio cinema” nulla accade mai per caso, e, guarda un po’, pare che questa fottuta pandemia (sempre che sia mai realmente esistita, ma su questo ognuno la pensa come vuole…) sia nata a Wuhan, in Cina, a causa del morso di un pipistrello… Con tutto il rispetto per le vittime (ne ho avute anch’io in famiglia), ma io la butto lì…
Poi, appunto, ci fu il nulla.

Non riuscivo a piazzare Dracula, che, temo, rimarrà sempre la mia “grande incompiuta”, per i motivi che illustravo a inizio intervista (in poche parole, siamo stati fregati sul tempo da Eggers, con la sua barbetta da hipster, i capelli con la brillantina e i baffetti da sparviero, il che dimostra che negli altri paesi le cose funzionano meglio. Ma, credetemi, è quasi la copia carbone del film che avrei fatto io, solo che, invece del mio austero bianco e nero, hanno usato una luce dalla tonalità ora blu ora seppia; invece del mitologico Franco Leo, un attore che sembra Paolo Triestino con tre peli in testa e il catarro in gola; e, invece della sontuosa Chiara Conti, quel cessetto sciapo della figlia di Johnny Depp – l’altra parte del muro…). I produttori non esistono più, e da quelli che esistono, o non cagano chi non è già “nel giro”, “dalla parte giusta del muro” (non va mai usato come scusa o alibi, ma un po’ vero in effetti lo è), e sugli altri no comment. E finalmente, dopo il lockdown, tornai al mio lavoro abituale come welcome agent per case vacanze. Piano piano si tornava alla “normalità”.

Però qualcosa mancava ancora. Un pezzettino di “neon demon” mi è rimasto. Volevo fare un ultimo corto di addio, prima di appendere… cosa? La MDP la appende un DoP, o un operatore; nel mio caso… le palle? Direttamente, me stesso? Al chiodo. La sceneggiatura ce l’avevo, ce l’ho. Mi ci voleva una diva. Decisi di contattare la ex pornostar Edelweiss, la cui bellezza era veramente abbagliante, dava perfino fastidio agli occhi, ci volevano gli occhiali da sole. Ma mi disse che non voleva avere più nulla a che fare col mondo dello spettacolo, anche se assolutamente non porno. Optai per il piano B: Eva Henger. Fu gentile con me, ma mi disse che certe trattative le avrei dovute gestire con suo marito, che è anche suo manager. Mi prese piacevolmente in contropiede, chiedendomi se fossi disposto a trasformare un mini-soggetto suo e del creator digitale/YouTuber/TikTokker Fabio Stirlani, nella sceneggiatura di un lungometraggio che fosse una commedia con un pizzico di action/thriller. Una sorta di cinepanettone ma, decisione sua che accolsi con un sospiro di sollievo, senza scoregge, Fichi d’India (rispetto per i defunti) che escono dal culo di capponi farciti per Natale, ecc. Lo feci. Mi offrì anche la regia di questo progetto, e siamo arrivati al mio ultimo, forse in tutti i sensi, film: Tic Toc. Devo ammettere una cosa: ho avuto la piacevole occasione di lavorare con un cast veramente all-star, con nomi ai quali, senza una produzione dietro, non sarei potuto assurgere con le sole mie forze: il nuovo film di Scovazzo con Maurizio Mattioli, Eva Henger, Sergio Vastano (mio idolo dai tempi del Drive In, sono un feticista degli anni ’80), nientemeno che Fausto Leali, il cui nome è scritto nel granito, il Gattone di Vicolo Miracoli Umberto Smaila, il mio già amico Roberto Girometti (che, a dire il vero, volli fortemente io e per fortuna ebbi, come autore della fotografia… Una persona che ha fatto la gavetta alla Settimana Incom, ha lavorato con Roberto Rossellini, Marino Girolami, Luigi Cozzi, Sergio Martino, Enzo G. Castellari, Giuliano Carnimeo, Gianni Minà, con un signor nessuno come El Líder Máximo Fidel Castro, e ora Davide Scovazzo, e lo ringrazio per un episodio: in un momento di tensione – come capitano in tutti i set – disse al produttore: “Se se ne va Scovazzo, me ne vado anche io!”. Questo è il mio Leone d’Oro, altro che delle statuette in plastica con scritto “bravo”. Questo è il successo = accumulo di cose che sono successe, i premi vengono moooolto dopo, e per questo non lo ringrazierò mai abbastanza. Non ti ringrazierò mai abbastanza, maestro). Il film prevedeva un mix, abbastanza riuscito, ma forse troppo ardito, tra il mondo degli attuali influencer, i cui follower speravamo di accaparrarci come spettatori, ma l’esperimento è solo parzialmente riuscito a livello semiotico (forse c’è stato un cortocircuito nel “medium”, nella “soglia d’attenzione” dell’utente medio di certi social), e la “vecchia scuola” degli “attori di razza” come quelli testé nominati. Oltretutto è letteralmente disseminato da piccole star come Luigi Lo Cascio, l’”indignato” di Avanti un altro di Bonolis, camei di Massimo Boldi, DJ Jad, DJ Ringo, e letteralmente da bellissime donne (la meravigliosa rossa Himorta del salottino di Bonolis, la sensazionale Emanuela Tittocchia, la “bonas” Paola Caruso, autentica virago bionda, dolce come lo zucchero a velo e adorabilmente sensibilissima, come se non avesse la pelle – per chi lo volesse sapere: ci fa, non ci è per niente… –, sempre dal mondo di Bonolis, Donatella Pompadour, e mille altre estratte dal mondo degli influencer). Avere cuochi e camerieri che volevano farsi foto con noi perché eravamo al tavolo con Eva, Mercedesz Henger – confermo: bellissima e supersexy, una mela non cade mai lontana dall’albero –, Vastano, e Sua Maestà Fausto Leali, oppure un educatissimo pizzaiolo di un bellissimo posto a Terni, dove ho cenato da solo la sera prima di riprendere il treno per Genova, che mi fa: “Permette una parola? Lei è lu regista de lu film che stanno girando a Terni, de cui se parla tantu? Permetta allora, la pizza la offro io, e apro un grappino speciale che teniamo solo per i clienti importanti!” e, io che già avevo il fuoco in gola perché, ansioso come sono, ogni mattina vomitavo per il nervoso, ho lasciato mezza pizza e non vedevo l’ora di tornare in albergo perché sul comodino c’era il mio Gaviscon che non vedevo l’ora di scolarmi, me lo vedo arrivare con una bottiglia con un grappino acidissimo – ma cavolo, che buono! – nel quale era natante a peso morto una vipera lasciata lì dentro a macerare: “Senta questo! Non è mica per tutti, sa? È di tradizione antica! Non a caso abbiamo anche un ottimo vino bianco che si chiama Vipra!”. Che dolce uomo, lo ricordo ancora con affetto… Sono cose, situazioni, persone, che si incontrano e si vivono lungo la strada del rock’n’roll… Anche se, ormai, sarà il non avere Luly, Zunino e la mia crew lì con me, sarà che troppi screzi, di cui non posso parlare, hanno rovinato l’atmosfera sul set e i problemi che ci sono stati in cucina, poi, alla fine, già lo sapevo, te li ritrovi nel piatto, ma questo “rock’n’roll” lo sentivo sempre meno. Forse stavo solo attraversando una fase di mutazione io.

Oh, “arrivare” a 44 anni all’unico sogno che non fai altro che sognare da quando avevi 11 anni e noleggiasti la vecchia, polverosa VHS di La casa di Sam Raimi, col nastro tutto stropicciato, e da quel momento non hai altro obiettivo, sogno o aspirazione, guardare cosa c’è al di là, guardare cosa c’è dentro, e scoprire che non c’è niente. Il tuo grande sogno è il tuo grande incubo, vomitare ogni mattina quando ti svegli, i giornali parlano di te, ma tu vuoi solo andartene, cancellare ogni traccia di “Scovazzo” ed essere “semplicemente Davide” (almeno due anni prima di Lucio Corsi… Vedi? Eternamente precursore… Non vedo l’ora di morire, perché di queste cose di solito la gente se ne accorge “da postumo”. Peccato che, a godermi la fama che forse non mi merito – no, me la merito eccome, soffro solo di “sindrome dell’impostore” –, non ci sarò, perché sarò già “altrove”). Ebbene, c’è gente che a questo colpo non ha retto. Me ne viene in mente uno, in scala infinitesimamente più grande: Kurt Cobain. Lascia perdere le droghe, che c’entrano e non c’entrano (Iggy Pop è nato 20 anni prima di lui, si è sempre strafatto come una zucchina ed è lì che se la spassa beatamente) e che io non prendo (ho un debole per la birra belga d’abbazia e per il prosecco, ma sono anche a dieta… Mai fumata neanche una canna). Non è quello: ha lottato come un matto per diventare una rockstar, lo è diventato, è scattata l’anedonia, non ha provato niente, voleva solo andarsene, si è sparato in bocca. Cazzo, sono più forte di Cobain!

Perché… non è che io sia “non fiero” di questo film. È che, forse, troppi cuochi e troppi ingredienti possono rovinare una zuppa. O, forse, più semplicemente, “non era più nell’aria”. Mi stavo distaccando dalla “settima arte”, cambiando pelle come le lucertole, iniziavo a sentire che non era quella la vita che volevo fare. Stavo iniziando a sentire che avevo bisogno di una vita più tranquilla e più stabile. Non era quella la vita che voglio fare; ho fatto capolino nel “magico mondo” (il famoso “successo”, quello che tutti sognano, travisando completamente di cosa si tratti… Forse era qualcosa in quel concetto che, in quella situazione, si è andato un po’ a distorcere, ma ci sono particolari “burocratici” in cui non è mia facoltà entrare) che la gente chissà cosa crede che cazzo sia. Ma, come dicevano i nostri bisnonni, “l’America sta’ ccà”. Scovazzo stava morendo per far nascere Davide, e, per citare El Topo, la talpa, ovvero ciò che mi sentivo in quel momento, è un animale che passa la vita sotto terra, scavando e scavando con le sue piccole dita ungulate, alla ricerca di arrivare alla luce. Una volta che vede la luce, diventa cieco.
Altro non ho da dire al riguardo.

Comunque, si è portato a casa dignitosissimi premi alla carriera a Eva Henger e Sergio Vastano, il premio “La Sirena Parthenope” al Napoli Cinema Festival come miglior film e l’”Hirpus d’Oro Speciale” all’Ariano International Film Festival. Si tratta di una commedia slapstick e interessante per il confluire in essa di mille realtà sia della TV che del “cinemone” che del web e, ne sono convinto, almeno per questo, passerà alla storia come un classico minore, di gran lunga migliore di, che so, Alex l’ariete, Chicken Park, il mio pur perversamente adorato Sbamm con Ezio Greggio o Chi ha rapito Jerry Calà?, che con Tic Toc ha davvero un po’ troppe somiglianze. Ma non è mia intenzione fare insinuazioni. D’altra parte, come dice il mio amico tenore Francesco Meli, protagonista della Prima alla Scala (vorrei tanto collaborare con lui ad un progetto thriller… Adoro mixare “arte bassa” e “arte alta”…): “Le note sono sette”. Varrà anche nel cinema? Del resto, anche un film di George Cukor con Ava Gardner si chiamava Sangue Misto… Ad ogni modo, il film è stato per molto tempo su Amazon Prime Video e ora è disponibile in DVD grazie al lavoro di Omar Bussi della Stormmovie/Quadrifoglio, quindi un’altra bomba è stata sganciata.

E nella mia santabarbara ho un lungimirante progetto: il geniaccio, anche lui outsider totale, ma proprio, come dicono dalle sue parti, outsider “de capoccia”, come me, il tatuatissimo e inquietantemente astemio Domiziano Cristopharo, ha voluto Durante la morte per un suo progetto a tema zombi che coinvolgerà autori da tutto il mondo, Frights of the Flesh Eaters, un Blu-ray di imminente uscita worldwide, nel quale ho provato davvero molto onore ad essere incluso. Anche lì, senza chiedere niente, senza oliare nessun ingranaggio, la stima reciproca ha vinto sul tempo, tempo che pare non riuscire a logorare i miei zombi, che, dopo più di 10 anni dalla loro “non-nascita”, continuano a essere ri-evocati, a risorgere dalla terra, sempre più coperti di muffa e piaghe da decubito, sempre più rosi dai vermi, sempre più pronti a mangiare e ad essere mangiati, dai vostri occhi attraverso lo schermo… Fenomeno curioso. A conti fatti, forse è davvero la cosa migliore che io abbia mai fatto, e il tempo è lì a dimostrarlo. Ringrazio Domiziano e non vedo l’ora della nuova resurrezione.

Il resto, chi, l’ho già detto, non morirà, vedrà.

Quello che mi importa adesso è stare lontano da vampiri psichici (ed economici, e del sistema nervoso), evitare “la merda”, sia essa fatta di persone, situazioni, contesti, film stessi, potare i rami secchi o ormai marciti, fiorire nell’amore e nella gioia con amici con cui sentirmi in una tribù e non in una perenne competizione, “coltivare Davide”, seppellendo la vanità di Scovazzo, godere dei semplici piaceri della vita, vivere con una dignità che tanta gente che ha mille “K” più di me, ma puffi dappertutto, società fantasma e ruoli poco chiari all’interno delle medesime, non sa neanche dove cercarla sul vocabolario, andare a dormire sereno, svegliarmi sereno, e andate tutti a fanculo.

E spolverare un po’ più spesso le mensole e le pareti piene di poster di festival e di premi vinti da un certo Scovazzo che ultimamente mi andava sempre più stretto.
E sopravvivere.
APPENDICI
Perché adoro Salvador Dalì? Allora: i Cristiani hanno Dio e, non riconoscendo la figura pagana del Semidio, hanno però il Messia, che è Gesù Cristo. Per me Dio è una cellula che conosce tre concetti che per noi umani sono paradossi: il Nulla (se lo immagini come un infinito spazio bianco hai già commesso tre errori), l’ Auto creazione (come fa a crearsi un Soggetto che di fatto NON c’è?) e l’Infinito (siamo tutti buoni ad immaginare qualcosa che non avrà mai fine, ma riusciamo a immaginare qualcosa che esista ed esisterà per sempre ma non ha mai avuto INIZIO? Ne parlavo , in maniera appunto del tutto surreale, con un Astrofisico, marito di una Documentarista (venimmo stracciati tutti e due da un bellissimo documentario su un manicomio abbandonato di Riccardo De Cal, “La Città Del Silenzio”, davvero da brividi, ricercai le stesse atmosfere per l’ospedale psichiatrico di PINK FOREVER, il SEGUITO di PINK FILM; ebbene sì, con Enrico Luly che si misura con Alisha Griffanti ai tempi pre-social non ancora “La Diva Del Tubo” e in seguito coinvolta nell’ Affaire-Andrea Diprè, sul quale ho dei miei pareri etici e del tutto personali ma preferisco tenermeli per me, per la gioia dei tuoi lettori che non ne potranno più del mio sproloquio) che mi voleva dimostrare l’inesistenza di Dio, che si acquisisce quanto più si studia il Cosmo, ad una cena durante il Collecchio Film Festival, al quale partecipai col mio cortometraggio più merdoso). Ecco, per me Dio è questo, molto simile a quello in cui il Dr. Manhattan dei Watchmen si stava trasformando, e il Semidio, ovvero, meno che un Dio ma molto più che un uomo, é stato (anzi E’: hai notato che da quando esiste l’ AI quasi tutte le opere d’arte che vanno spacciando certi artisti digitali o sono suoi ritratti o sono dichiaratamente ispirati a Lui? E’ molto più vivo adesso di quand’era “fisicamente vivo”, è stato il primo VERO GRANDE INFLUENCER della Storia! Il suo trapasso dalle spoglie mortali è stato semplicemente un incidente poco più che trascurabile, la FINE DELL’INIZIO – e non il contrario – della sua carriera! Per quello io continuo a vivere e ad analizzare il mondo attraverso la lente del Metodo Paranoico-Critico!) Salvador Dalì. Perché? Perché nel mondo non fai in tempo a nascere che ti viene urlato in faccia “CRESCI! MATURA! ADEGUATI! STAI DENTRO I MARGINI! CONFORMATI! SENNO’ NON SARAI MAI UN INGRANAGGIO UTILE ALLA MACCHINA TRITATUTTO DEL MONDO!”, ed è esattamente ciò che lui NON ha mai fatto. E’ rimasto per tutta la vita un bambino completamente egoriferito, mettendo proprio sé stesso al centro dell’Universo come i bambini piccoli in una certa fase della loro crescita, ma mai superandola, batteva i piedi, era egocentrico e crudele come i bambini, pretendeva che tutto andasse come voleva lui, si è rifiutato di maturare, e proprio per questo, lui il mondo LO HA DOMINATO, invece che farne semplicemente parte. Come Cristo, non è affatto facile seguirne le orme, ma apri una pagina a caso della “sua storia” e troverai una frase che ti darà conforto, ristoro e motivazione, inoltre, non è necessario emulare entrambi (“non abbiate paura della perfezione: non la raggiungerete mai!”), ma basta averlo come esempio e come fuoco che arde nel tuo cuore e ti guida nelle tue scelte. Immaginalo oggi: Andrebbe con la stessa disinvoltura e essendo sempre sé stesso (o una perenne maschera? Non si è mai saputo, ma di chi lo si sa fino in fondo? Forse era mascherato da sé stesso che si mascherava da sé stesso, così pensavamo che facesse finta di scherzare intanto diceva la Verità…..) a cena con Elon Musk parlando con competenza di voli nello spazio e nanotecnologie e il mattino dopo a farsi aggiustare i baffi da Federico Fashion Style dal quale ovviamente VERREBBE PAGATO per avere una foto e un video che documentino che LUI ha potuto aggiustare i baffi a DALI’! La mattina dopo andrebbe a colazione con Anne Wintour, il pomeriggio verrebbe paparazzato da Fabrizio Corona a un tavolo sontuoso con Giacomo Urtis e Michelle Houellebecq, insieme. Nessun altro prima di lui, forse nemmeno l’ardito e super belligerante d’Annunzio, e nessun altro grigio omuncolo privo di “scintilla” venuto dopo potrebbe mai!
I tre momenti più belli, grandi e magnificenti della mia mini-carriera? In realtà sono quattro, ovvero tre e mezzo (“Ma poi me ne restano Mille”, come canta Orietta Berti con Fedez):
1 – la Prima Ufficiale di RIGOROSAMENTE DISSANGUATI DA VIVI, solo il mio episodio, al Genova Film Festival. Facemmo letteralmente VENIRE GIU’ il multisala The Space. C’erano tutti, dall’intellighenzia del Cinema in Liguria fino ai Punk di strada, ne hanno parlato tutti i giornali, l’incontro con il pubblico stesso si è trasformato in un happening, mi raccontano che uno è anche saltato giù dalla balconata ma io ero troppo “strafatto” di adrenalina per accorgermene, c’erano amici, addetti ai lavori, curiosi, colleghi, partecipanti, fotografi, Righeira stesso, non so quanti ristoranti stipammmo, festeggiammo fino al mattino, prendemmo praticamente in ostaggio gli organizzatori e occupammo il Cinema, no scherzo, ma fu davvero un momento di Trionfo, giocavo “in casa”, certo, ma si sentiva non solo affetto sentito, ma partecipazione vera, pulsante, quasi non si respirava dalla tensione della prima, dalla vera curiosità verso il film, fu davvero un momento apicale. Irripetibile. Glorioso. Spontaneo. Grandezza. Umana, ancor più che cinematografica. Ero “Qualcuno”, cazzo. Ma non per i rivali, per gli esperti, per i giornali: lo ero per me stesso. Non ero un Regista, non ero Davide, non ero Scovazzo, ero una Rockstar. E lo ero nella, PER LA mia Genova.
2- la primissima di Pink Film al Genova Film Festival. Wow! Un mio film su grande schermo? Non potevo neanche crederci! Ma non fu che l’inizio! Avevo 22 anni, ci presentammo con Nicola Zunino ammanettati con manette di pelouche rosa shocking, quelle da Sexy Shop, e una bottiglia di prosecco a testa in mano, poi guardammo il libro-catalogo della kermesse, oh, tra TUTTI i fotogrammi di TUTTI i cortometraggi arrivati in concorso, come copertina hanno scelto proprio il Primo Piano di Nicola in boa di piume di struzzo truccato e imparruccato come una Marilyn Monroe marcia e tossica, da Pink Film! Wow! Eravamo John Waters, eravamo delle Superstar! Non sapevamo neanche di che cosa, ma eravamo assolutamente glamourosissimi protagonisti! Il mondo era ai nostri piedi! Rock’n’fuckin’roll! Boato in sala, ovviamente. NESSUN film cominciava e colpiva come il mio. Neanche adesso.

3 – la assolutamente insperata e inaspettata vittoria di BLA BLA BLA BLA (un cortometraggio del 2005 impostato come una sit-com marcia e psycho-nonsense in un palazzo fatiscente nella periferia di Genova che infatti poco dopo è stato demolito: l’ho girato a 4 mani col genio della animazione a Passo 1 Tony Sbarbaro: se nel mio “appartamento” i due personaggi in carne e ossa, tra cui Enrico Luly onnipresente, recitavano – splendidamente malissimo – brani di “Psicosi delle 4:48” della povera Sarah Kane, negli altri “appartamenti” i pupazzi di Tony Sbarbaro portavano avanti dialoghi che non volevano dire assolutamente niente, una specie di “Chelsea Girls” calato nel contesto del teatro dell’ Assurdo) al Bizzarro Film Festival di Bologna, un film festival imperniato su tematiche fetish-sadomaso: e, come con quel film totalmente e volutamente senza soggetto vincemmo il Premio Miglior Soggetto al Film Festival di Imperia (totale surrealismo, come sempre), quel film privo assolutamente di sesso vince il primo premio “Miglior Film” ad un festival di cinema feticista-BDSM! Splendido! Nessun Soggetto = Miglior Soggetto! Niente Fetish/BDSM = Miglior Film a Tematiche Sessuali! Il Surrealismo che da sempre permea la mia vita trionfa ancora una volta e perculamento gigante di giudici e giurie, nonché di noi stessi in primis e del meccanismo dello Showbiz tutto! E avanti così, di Festival in Festival, ruote che girano, follia, gente interessantissima conosciuta e che non rivedrai mai più, Successo! Ah ah ah ah ah!

4 – Quando, alla fine delle riprese di Tic Toc a Terni, sceso dal treno alla stazione di Genova Brignole. Mi inginocchiai e baciai per terra. Intorno a me, le prime luci natalizie. Piansi. Scovazzo era morto. Come Rocky Balboa, uscivo da quel ring non vincitore, ma cazzo se sono rimasto in piedi fino alla fine, l’ho dimostrato a tutti, ma soprattutto a me stesso. sentivo però che un ciclo della mia vita era finito. Avevo fatto un brutto incontro, ma che avrebbe mandato k.o. chiunque, Scovazzo no. Ha aspettato in piedi l’ultima campana. Ora era tornato a casa, fisicamente e simbolicamente, e da lì poteva e doveva ricominciare da capo. Ma la missione di “Skovatzo” nel “Magico Mondo” del Cinema la sentivo ormai compiuta. Da quel momento in poi sarebbe nato Davide. E, lo dico soprattutto per i giovani che si apprestano fomentati e ringhianti come pitbull a coronare i loro sogni (un tempo si sarebbe detto) “di celluloide”, tenetevi pronti un piano B. Nessuno “Là” Vi sta aspettando. Io ho sanguinato da ogni poro per andare a ficcare il naso e vedere se di questo avrei potuto farne una vita. Mi sto ricucendo le ferite ancora adesso. Poi la fiamma si è spenta. Si può vivere, benissimo, anche senza essere il nuovo Nicholas Winding Refn. Anzi, secondo me si vive molto meglio.
Alcune foto dell’articolo sono state scattate da: Laura Avarino Molokoart, Marina Mazzoli, Roberto Giretto, Isabella Noseda, Lucio Basadonne, Marzio Mirabella, Escher.
Wallpaper artwork by Davide Sossi Artiva Design
Lascia un commento