Days: la contro narrazione di Tsai Ming-Liang che recupera “l’inessenziale”

La dilatazione temporale, la fissità dell’inquadratura, la riduzione al minimo del montaggio, l’assenza o quasi dei dialoghi: la grammatica cinematografica di Days rivela un’idea di cinema precisa, che contesta le consuete narrazioni e, in particolare, quel desiderio sciocco di alzare continuamente l’asticella del visibile per titillare l’attenzione dello spettatore.

L’ultimo film del regista taiwanese Tsai Ming-liang è una sorta di contro manifesto rispetto alla tendenza attualmente in voga, non solo a livello cinematografico, che vede il diffondersi di una proliferazione incontrollata di immagini. Di fronte a questa degenerazione maniacale – un vero e proprio assedio – Ming-liang reagisce riducendo, sottraendo, eliminando e sottoponendo il pubblico a una necessaria torsione di sguardo, a una ricollocazione radicale delle prospettive di osservazione.

Kang (Lee Kang-sheng) vive da solo in una grande casa. Attraverso una facciata di vetro, vede le cime degli alberi sferzate dal vento e dalla pioggia. Sente uno strano dolore che non riesce a sopportare e afferra tutto il suo corpo. Il giovane Non (Anong Houngheuangsy) abita in un piccolo appartamento a Bangkok dove prepara metodicamente piatti tradizionali del suo villaggio natale. Quando Kang incontra Non in una stanza d’albergo, i due uomini uniscono le loro solitudini. Questa è la scheletrica trama di Days, in cui i due protagonisti vengono dapprima scrutati nelle loro esistenze quotidiane, fino all’incontro. Anzi, in un certo senso, è proprio l’ordinarietà dei gesti che viene innanzitutto e per lo più mostrata. In questo senso, il regista rivela più che mai l’intenzione di sottrarsi al dogma della spettacolarizzazione a tutti i costi, proponendo una rappresentazione anomala della realtà, colta nei momenti inessenziali, sempre trascurati dal cinema, in cui impera la regola dell’ellisse, per togliere il superfluo e mettere in scena solo ciò che può destare attenzione.

Invece, con un caparbio rovesciamento, sono i “tempi morti” a farla da padrone, perché la vita è composta anche da essi, molto più di quanto si è disposti ad ammettere. Ecco, allora, che vediamo Non alla prese con una lunga sessione di cucina (inquadratura fissa laterale), in cui, semplicemente, accende il fuoco, maneggia una padella, minuzza le verdure e assaggia il brodo. Il tempo del cinema è uguale a quello della vita. E, allora, anziché reagire con impazienza, probabilmente l’atteggiamento più adeguato rispetto a tale inversione di senso è farsi catturare dalle immagini, sprofondarvi, lasciarsi quasi ipnotizzare. Un gesto ordinario, nel momento in cui si compie di fronte a una macchina da presa, rivela una potenza simbolica insospettata con cui il cinema dovrebbe confrontarsi più spesso. Molto interessanti, in tal senso, sono le sequenze in cui l’attenzione del regista indugia sui due protagonisti mentre dormono.

Sono fermi, incoscienti, se ne se sente a male pena il respiro, eppure anche quegli intervalli diventano significativi laddove si fa esperienza di una temporalità non cronologica, piuttosto di un flusso che corrisponde a una durata emotiva, che sfugge, ovviamente, alla capacità di presa dell’obiettivo e rimanda a un fuori campo che può essere solo evocato e non mostrato. Il cuore del film è l’incontro tra i due uomini, i cui corpi lentamente entrano in contatto attraverso un massaggio preparatorio che diviene una sorta di passaggio preliminare al successivo sviluppo erotico che culmina nell’orgasmo. Le mani di Non esplorano il corpo di Kang partendo dalle piante dei piedi, come se l’altro fosse una sorta di tempio da non profanare, che necessita di essere attraversato pudicamente prima di giungere all’altare. Un momento molto intimo e poetico che viene restituito con un realismo quasi documentaristico. Quello che sembrerebbe un fugace amplesso consumato in una stanza d’albergo, però, pare aver lasciato uno strascico in entrambi. Non sapremo cosa accadrà, Days finisce con una bella e opportuna sospensione che convoca lo spettatore a fare proprio ciò a cui ha assistito, elaborandolo liberamente.

 

 

Luca Biscontini