Uscito nel 1950, a cinque anni di distanza dalla fine dell’atroce tornado di sangue e di fuoco della seconda guerra mondiale, Di là del fiume e tra gli alberi resta uno dei romanzi meno fortunati del sagace ed eclettico scrittore statunitense Ernest Hemingway. Vincitore del Premio Nobel per la letteratura in virtù “della sua maestria nell’arte narrativa nonché dell’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo”.

La trasposizione del libro incapace secondo la maggioranza dei critici d’eguagliare Il vecchio e il mare, in cui Hemingway seppe invece trarre linfa dalla dotta ed elegiaca egemonia morale della parte sommersa su quella visibile, settantacinque primavere dopo l’approdo nel volubile mercato dell’arte, costituisce quindi una sfida doppiamente degna di nota per l’ambiziosa regista spagnola Paula Ortiz, già avvezza, col mélo La novia ricavato dal celeberrimo dramma teatrale Nozze di sangue dell’iconico ed erudito poeta Federico García Lorca originario della provincia di Granada, ad attingere al carattere d’ingegno creativo degli autori migliori.

La sfida in questi casi consiste nel dispiegare per mezzo della significativa ed emblematica scrittura per immagini il proprio peculiare punto di vista sia sull’argomento in questione sia sulla cifra stilistica portata ad effetto dal compianto autore ed eludere l’impasse dei nani sulle spalle dei giganti che di proprio, stringi stringi, ci mettono ben poco. Se non niente. L’incipit paesaggistico mostrato da Di là del fiume e tra gli alberi non sembra comunicare un’opinione carica di significato per mezzo della geografia emozionale, impreziosita dalla capacità dei vincoli di suolo d’influenzare gli stati d’animo d’un uomo d’armi con le arterie coronariche ormai conciate per le feste; bensì introduce elementi assai risaputi sul versante degli sfondi esornativi. Rendere il territorio assurto ad attante narrativo zeppo di suggestioni profonde, persino decadenti, giacché sottintendono oltre alla fine d’un’esistenza la fine d’un’epoca, parte integrante, se non decisiva, del succo della trama allo scopo di riuscire ad appaiare alla funzione diegetica del paesaggio una tela di gesti, conformi al sobrio ed evocativo lavoro di sottrazione, che consente al cosiddetto principio dell’iceberg di far emergere il potere del non detto. Paula Ortiz, al contrario, nell’esibire spesso e volentieri l’inquadratura di quinta della stanca carcassa del colonnello Richard Cantwell, interpretato in maniera gigionesca dal modesto seppur richiesto attore americano Liev Schreiber, nel giustapporre il dettaglio ravvicinato del volto dell’accigliato protagonista, che considera il coraggio una dote sprecata nel Grand Guignol dei macabri combattimenti lasciatisi alle spalle, con la necessità espressiva dei campi lunghi, stenta tanto a conferire alla Venezia filmata ai tempi del Covid-19 per catturarne negli scorci storici rimasti immutati la valenza identitaria d’uno spazio attivo, colmo quindi pure di mistero, quanto ad aggiungere all’invisibile togliendo al visibile. La sottrazione e l’evocazione ivi congiunta, attraverso l’interazione ora tra habitat ed esseri umani ora tra suoni diegetici ed extradiegetici, con la nobildonna diciannovenne Renata in procinto di sposarsi per interesse che lo invita a ballare per non coniugare anzitempo l’esistenza all’imperfetto, non rientrano affatto nelle corde espresse di Paula Ortiz dietro la macchina da presa.

Across the river and into the trees, still and BTS pictures.

L’effigie dei luoghi dove il colonnello scampò alla morte ai tempi della prima guerra mondiale paga dazio al carattere frettoloso delle mere modalità esplicative. Il carattere d’autenticità riscontrabile nell’interazione tra interni ed esterni, che dovrebbero riverberare il rapporto dei batticuori privati nei contesti epocali, veleggia, stringi stringi, in superficie dell’azione e della morale venatoria del colonnello che caccia le anatre in tempo di pace. Ad approfondire le ragioni all’opposto dell’amore fugace che trascende qualsivoglia divario generazionale non può provvedere appieno l’uso frequente della soggettiva, per accrescere il processo d’identificazione degli spettatori col militare dal passo pesante agli sgoccioli, né il colpo di gomito dei richiami citazionistici. Sanciti dalla spontanea ed eterea Renata alla guida dell’ennesima gondola romantica mentre distingue i versi dedicati da Shelley alla città lagunare da quelli di Byron. Il ruolo della topofilia, che deriva da “topos” (luogo) e “philia” (amore), sulla carta contribuisce a sopperire ai limiti dell’opera a tema conferendo alle lividi luci ghermite grazie all’ausilio prezioso dell’accorta fotografia la destrezza di convertire gli effetti cromatici in opportuni ragguagli introspettivi. In merito alla forte percezione delle strade, dei monumenti, degli indubbi capolavori architettonici dell’illustre teatro a cielo aperto sul versante del senso d’appartenenza. Il colonnello, a un tiro di schioppo dall’impietosa commare secca, col rimorso esacerbato dal ricordo dei nemici all’acme dell’età verde mandati negli scontri sui vari fronti a ingrossare i cavoli, apprende ad amare una ragazza simbolo di gioventù e al contempo d’orgoglio identitario per la storia millenaria scevra dal tormentone del cupio dissolvi. All’atto pratico i ripieghi ampollosi, insinuati nelle trepide occhiate, nelle scaltre correzioni di fuoco, impiegate per spingere il pubblico a vederci chiaro sul crescendo del sentimento d’affezione per la colta figura muliebre e per il patrimonio culturale della sua fiabesca città natale, in certi guizzi lirici, non esenti da qualche passaggio programmatico, mandano a carte quarantotto la voluttà di eliminare il superfluo facendo così emergere la veste allegorica dell’affascinante teatro a cielo aperto.

La piazza al mattino, avvolta dai colori dell’alba, le sagome chiaroscurali degli amanti divisi dall’anagrafe e uniti dalla tendenza a interpretare la realtà legata al territorio eletto a location in termini mitici, i flashback delle cruente battaglie, che scopiazzano le scene clou dell’applaudito ed enfatico war-movie Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, rientrano nell’ordinaria amministrazione dei meri mestieranti. Abituati a confondere la concitazione con la contemplazione, l’affettazione con la stilizzazione, la semplice sospensione dell’incredulità con l’astrazione poetica. L’esilità dell’intreccio di Hemingway, dovuta alla semplice conoscenza del comandante del ventiduesimo Reggimento di Fanteria della quarta Divisione e della nobildonna d’ascendenza dalmata nata in Laguna all’origine della coppia passionale seppur occasionale, era compensata dall’ispirazione stabilita dalla visione della zona situata a sud della Valle Zignago dove stanziava la popolazione di Caorle. A Paula Ortiz, che traligna le mire crepuscolari nel deleterio patetismo dell’apologo generico sull’affetto dell’uomo d’armi pure il sottoposto Jackson dapprincipio schernito sulla scorta del dolente sarcasmo maturato in zona Cesarini, sfugge la parentesi spirituale connessa, senza i vani stacchi in soggettiva, allo spazio inquadrato dalla camera e pervaso dai mutamenti di colore innescati dalla forma gassosa, ed ergo invisibile, del vapore acqueo insieme alle particelle solide sospese nell’aria. L’atmosfera quindi di affezione, sospensione, sottrazione ed evocazione appare scolastica. Di là del fiume e tra gli alberi d’altronde sta a Morte a Venezia di Luchino Visconti come l’ammiccante thriller meditabondo Vanilla sky di Cameron Crowe sta al coinvolgente ed ermetico Mulholland drive del rimpianto David Lynch. All’attivo resta solo ed esclusivamente la persuasiva prova dell’avvenente e intelligente Matilda De Angelis nel ruolo di Renata. Tuttavia lo spettacolo secondario della psicotecnica recitativa dell’attrice bolognese dal piglio cosmopolita non è sufficiente a rimediare alla penuria d’uno spettacolo primario svilito dalla tecnica di ripresa dedita agli inutili ricalchi.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Plugin WordPress Cookie di Real Cookie Banner
Verificato da MonsterInsights