“Diabolik sono io”… parola di Giancarlo Soldi!

Diabolik cattura ancora l’interesse degli accaniti lettori. Divenuti spettatori delle trasposizioni sul grande schermo dell’icona fumettistica: Diabolik diretto dal compianto Mario Bava in chiave originale kitsch. In antitesi rispetto ad Angela Giussani. La creatrice di Diabolik. Emblema dello stile bon ton chic. Giancarlo Soldi ha girato l’atipico documentario Diabolik sono io. Il Diabolik realizzato dai Manetti Bros. è divenuto un kolossal privo di mistero.

Pensato per il box office in previsione dei sequel. Bava, uno dei nostri migliori registi, ha coniugato la vita all’imperfetto da diverso tempo. Soldi, che Mondospettacolo ha già intervistato per Cercando Valentina – Il mondo di Guido Crepax, è, come si dice, vivo e lotta insieme a noi. Ci ha perciò detto la sua sulla ricerca del tempo perduto compiuta con Diabolik sono io.

 

Un autore di cinema si può definire tale quando ha una conoscenza intima della materia trattata. Tradotta attraverso la scrittura per immagini. Non basta leggere il fumetto. Non potendo avvicinare Diabolik, se non attraverso le tavole del disegno dei gialli tascabili, come hai conosciuto le Giussani?

Ho conosciuto Angela Giussani, l’indiscussa leader a cui si deve, come ben sai, la creazione di Diabolik, e la sorella minore Luciana tramite Sergio Bonelli (uno dei più importanti fumettisti ed editori nostrani). Lui era a conoscenza dei cortometraggi girati dal sottoscritto (con No Future sugli scudi) e del mediometraggio (Polsi sottili) che nel 1985 venne presentato al Forum del Festival di Berlino. Come film indipendente.

 

Il tuo amore per i fumetti era già di dominio pubblico?

Sì, Sergio sapeva bene quanto amassi i fumetti. E volle rendere partecipi le Giussani. Ebbe questa intuizione: Angela e Luciana amavano molto il cinema; era un modo quindi per unire due mondi.

 

Eri un giovane regista che amavi i fumetti. Che ricordi hai?

Bei ricordi. Primo perché, quando ero loro ospite, mangiavo benissimo. La tavola imbandita, con ogni ben di Dio, per un regista indipendente come me rappresentava un buon inizio.

 

Ai tempi presumo che non avessi una folla attorno.  Eri un fan di Diabolik oppure lo conoscevi per sommi capi?

Conoscevo il personaggio dell’astutissimo ed enigmatico ladro vestito di nero. Con lo sguardo di ghiaccio. Leggevo i fumetti. Mi piacevano. Ma non ero un appassionato. E glie lo confessai senza remore ad Angela e Luciana.

 

La serie a fumetti di Valentina, con le tavole da disegno costruite in modo architettonico da Guido Crepax (d’altronde oltre che fumettista era architetto) e il richiamo della geografia emozionale, con Milano eletta ad attante narrativo ed evocativo, e del design, in anticipo coi tempi, rientra appieno nelle tue corde. Ed è per questo che Cercando Valentina – Il mondo di Guido Crepax rimane per me il tuo film più riuscito: tratta dell’argomento che conosci meglio. Come sei riuscito ad approfondire il mondo di Diabolik?

È avvenuto tutto gradualmente. Le Giussani con me parlavano fondamentalmente di due cose: male del film di Mario Bava. E invece bene, con un certo trasporto, dei viaggi che facevano. Si interessavano anche della mia cifra stilistica dietro la macchina da presa per capire come me la cavassi nel cinema. Qual era il mio ambito. Il mio posto in quel mondo. Che le affascinava. Senza conoscerlo dal di dentro.

 

Il tuo status di regista indie a loro bastava e avanzava?

Assolutamente. Bastava che facessi del cinema. Anche underground.

 

La tecnica di ripresa dei registi estranei ai diktat degli scaltri produttori interessati alla rimuneratività, anziché alla forma d’espressione e ai contenuti, alle Giussani piaceva più delle pellicole sbancabotteghino. Altri fumettisti la pensavano così?

Giovanni Gandini (il fumettista ed editore che ha fondato Linus) non si perdeva una proiezione. Con la moglie Anna Maria venivano sempre al cinema a vedere i miei film. Il cinema esercitava un ascendente fortissimo all’epoca. Come d’altronde lo esercita oggi. Allora, ribadisco, la possibilità di portare compiutamente il mondo dei fumetti sul grande schermo solleticava la fantasia e il gusto di molti addetti ai lavori. Erano tutti assai partecipi. Non mi lasciavano mai da solo. Anche se all’inizio, hai ragione, non avevo la folla attorno: ero solo. Ma grazie alla solidarietà e alla sensibilità dei fumettisti non lo sono più stato. Bei ricordi, ripeto. Ed è stato così che ho cominciato ad avvicinarmi, un po’ alla volta, al mondo del Diabolik delle Giussani. E al suo mistero.

 

I bei ricordi sono una cosa; il sentimento della nostalgia è un’altra: si ferma in superficie. Ed è quello che è successo ai Manetti. Forse il meglio se lo riservano per i sequel. Ma al di là delle strategie, riguardo la trasposizione dei best seller e la serializzazione per convertire la fedeltà dei lettori al personaggio di Diabolik nella curiosità degli spettatori, il mistero è assente. E il mistero in Diabolik conta più del terrore. Conoscendo le Giussani hai colto quel mistero per cui l’approfondimento trascende lo sfrondamento e le strategie?

Capivo che le Giussani erano le comandanti di quella nave. Di quel personaggio. E perciò anche del mistero che lo circondava. Rendendone le avventure avvincenti. Come se non di più della Jaguar E-type che Diabolik guida ad altissima velocità, degli inseguimenti, dei furti dei preziosi con destrezza, della glaciale fermezza delle sue azioni. Pur non essendo un assiduo lettore del fumetto creato da Angela e Luciana, nutrivo per loro il massimo rispetto. Se non un’ammirazione incondizionata. Il successo della serie dei fumetti di Diabolik nel corso dei decenni, l’elezione con pieno merito a cult, la capacità di unire lo stile chic, l’eleganza, la sobrietà, la classe – che tu Massimiliano giustamente attribuisci ad Angela e Luciana – al mistero, al giallo, all’imprevisto, al puzzle da riempire puntata per puntata, sono, ed erano quando le conobbi, tanta roba. Non mi interessava distinguere i disegni belli da quelli meno belli. Le Giussani mi dissero che un intellettuale della statura di Dino Buzzati andava matto per Diabolik.

 

Pare che abbia chiamato Diabolik il cane regalato alla moglie Almerina. Da poeta, scrittore, giornalista e lettore sensibile ed eclettico ha cementato la dignità letteraria del fumetto. Apprezzando in maniera particolare Diabolik ne ha sancito l’intrattenimento disimpegnato o la legittima autorialità? 

Buzzati si rilassava leggendo i fumetti di Diabolik. Ma quei gialli tascabili non rappresentavano unicamente l’evasione dallo stress. Oltre al relax, comunque piuttosto indicativo, c’è anche, se non soprattutto, l’amore per l’universo assai variegato dei fumetti. Da Topolino a Diabolik. L’amore per questo personaggio per lui era una cosa intima.

 

Condivisa con Almerina, che nel 1974 scrisse la prefazione al Libro Rosso di Diabolik.  Quindi, riaffermo, quella di Buzzati fu un’investitura in famiglia per il re del terrore e del mistero.

Piacere, divertire ed emozionare l’autore di tanti capolavori letterari (da Il segreto del bosco vecchio a Il deserto dei Tartari che hanno ispirato gli omonimi film di Valerio Zurlini, il secondo, ed Ermanno Olmi) è qualcosa di estremamente significativo. Specie perché quest’investitura proveniva dall’artefice pure di Poema a fumetti.

 

Mica pizza e fichi. Come si dice a Roma. Ma è a Milano, nella redazione delle sorelle Giussani, che si dipana il mistero di Diabolik. Che atmosfera si respirava in quella redazione?

Era particolare. C’erano dei cassetti. Pieni di fogli, di faldoni, di roba archiviata con cura, di trucchi. Come nei film colmi di mistero. Negli apologhi sul mondo dello spionaggio. Sulle spie. Poi Angela Giussani da un altro cassetto tirò fuori un fantastico numero di Diabolik. Con la copertina rossa. Gigante. Me la diede. Me la firmarono. E disse: “Tieni”.

 

Hai parlato del Diabolik con la copertina gigantesca. Quando guardi il formato da gialli tascabili sei pervaso dalla nostalgia?

Mi piaceva che le Giussani usassero i retini. Prima di Diabolik avevano tentato l’avventura con la serie a fumetti del pugile Big Ben Bolt. Ed essendo strisce americane usavano i retini per ottenere la scala dei grigi conformi al carattere del racconto, la profondità voluta, i contrasti chiaroscurali. Ma non sono stato pervaso dalla nostalgia.

 

Applicare il retino sul disegno, togliere il superfluo col taglierino, produrre le mezze tinte per mezzo dei fogli adesivi e della gradazione di puntini non riguarda solo il passato. Per cui si sente nostalgia. Ma concerne pure le selezioni, taglierino alla mano, dei fumetti odierni e dei manga. Senza sentire nostalgia ora, i gialli tascabili di Hammett li leggevi prima?

Da ragazzo mi piacevano da matti. Non soltanto i gialli tascabili tipo La maledizione dei Dain, L’apprendista assassino, La chiave di vetro e Raccolto rosso di Dashiell Hammett. Ma anche I racconti del terrore di Poe. E Assassinio sull’Oriente Express di Agatha Christie. Compresi presto che si trattava di letteratura alta. Contenuta nei gialli tascabili. Da portarsi facilmente appresso. Anche in viaggio.

 

Sembra che ad Angela Giussani l’idea di creare Diabolik come emblema del genere che per eccellenza tiene i lettori sui carboni ardenti, grazie al clima di mistero e al puzzle da riempire palmo a palmo, venne stando affacciata alla finestra di casa. Situata nel Piazzale Luigi Cadorna. Guardando i pendolari in transito nella stazione di Milano rapiti in attesa del treno dalla lettura di quei gialli tascabili ed empatici.

Ti confermo che quello hai detto è oro colato. Me lo raccontarono le stesse Giussani. Più o meno come l’hai appena raccontato. L’idea di realizzare un fumetto un po’ più piccolo di Topolino e di poche pagine, coi disegni grandi, era sostenuta dal calcolo fatto sul tempo di lettura. Più o meno venti minuti. Ed era perfetto quindi per i viaggi dei pendolari.

 

Infatti. Con due quadri a pagina. O al massimo quattro. La scenografia e i costumi in Diabolik sono nondimeno fattori visivi che diventano altresì fattori introspettivi?

Gli oggetti, i telefoni per dire, erano quelli indispensabili al carattere del racconto. Il beauty look di Eva Kant ne rispecchia la personalità e l’eleganza. È lo stile della dolce metà di Diabolik. Che lo completa. Anche gli arredi contribuiscono ad accrescere la forza significante del fattore visivo.

 

In Diabolik sono io la ragazza fuggita di casa col tablet e il look simile alla protagonista di Uomini che odiano le donne, dietro cui si cela Eva, mostra in un luogo carico di senso ad Angelo Zarcone – il primo disegnatore del re del mistero in preda a un’amnesia dissociativa – i filmini in super 8 delle Giussani. Dapprincipio nel fiore degli anni. Poi con i segni del tempo ritratti sul volto. La tua ricerca del tempo perduto, oltre che un omaggio a loro, lo è anche al sound design, col rumore del proiettore, a Nuovo cinema Paradiso e alla geografia emozionale?

Disegnare coi suoni mi piace tantissimo. Ma perché serve. La musica extradiegetica pure aiuta molto. È suggestiva, pertinente, funzionale. Però il rumore, il suono, la spontaneità, la naturalezza con cui si vanno ad appaiare col resto permettono all’udito di avvicendarsi alla vista. Ed è bellissimo. Oltre che utile. Sui luoghi ci hai preso. Ne parlammo pure quando mi intervistati dopo aver visto in proiezione stampa Cercando Valentina – Il segreto di Guido Crepax. La geografia emozionale, come la chiami tu, in Diabolik sono io è diversa da quella che il personaggio di Valentina lungo le strade di Milano e le fermate della metropolitana vive in tutto e per tutto. Nei luoghi anche degli scontri. Milano è però sempre presente in Diabolik sono io. Nei capannoni appena fuori città. Che rappresentano i non luoghi. E quindi Clerville. E anche Ghefn. Dove non ci stanno musei. Ma solo banche. Che Diabolik intende svuotare. Quella scena ambientata nella villa abbandonata con le scritte sui muri dove la ragazza impersonata da Claudia Stecher proietta i filmini in super 8 delle Giussani l’ho girata in un manicomio inagibile. Negletto. Ho lavorato per due anni presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Ed era importante per me partire dal carattere d’autenticità dell’esperienza  per delineare, citandoti, la ricerca del tempo perduto di Zarcone.

 

Nuovo cinema Paradiso di Tornatore nella stanza dei ricordi, nel trait d’union della musica di Morricone e di una ricerca del tempo perduto di presa immediata trae partito da C’era una volta in  America. Ti premeva più delineare la psicologia dei personaggi e dei luoghi o quel tipo di elegia dei sentimenti?

Non mi piace rifugiarmi nelle idee degli altri. La ricerca del tempo perduto in effetti mi stava e mi sta molto a cuore come concetto. Da tradurre in pratica nei miei film. Documentari nella struttura e un po’ visionari nei risvolti narrativi. Ma non ho pensato mentre giravo Diabolik sono io né a C’era una volta in America né a Nuovo cinema Paradiso. Non metto in dubbio che ci sia un nesso, che anzi mi fa piacere, però l’elegia dei sentimenti di quel tipo attiene a un meccanismo inconscio. Sotterraneo. Quello che mi premeva era appunto delineare la psicologia dei personaggi. Attraverso i luoghi. Che li connotano. Scandendone i pensieri nascosti. Condizionandone il modo di porsi dinanzi allo svolgimento degli eventi. All’arcano svelato.

 

A tal proposito mi permetto di muovere un piccolo appunto: gli occhi di Luciano Scarpa nel ruolo di Zarcone sono molto più incisivi di quelli di Luca Marinelli nei panni di Diabolik nel film dei Manetti. Tuttavia la voce funziona meno. Come mai in certe sequenze non lasci che a parlare siano gli occhi, i silenzi eloquenti e le immagini come quelle della celebre redazione?

Capisco benissimo quello che intendi. E apprezzo la tua valutazione critica. Perché è schietta. Ed è vera. Luciano Scarpa ha gli occhi giusti. D’altronde Zarcone fu quello che disegnò gli occhi di Diabolik. Ispirandosi ai propri. Ho pensato molto a questa cosa che dici in merito al fatto che gli occhi, così come i silenzi e le immagini, comunicano meglio delle parole. E infatti le parole associate ai pensieri le ho messe dopo. Volevo riuscire ad avvicinarmi un po’ a Diabolik. È un personaggio che ha un flusso di pensiero continuo. Lui dice quello che fa. Passo per passo. Rende partecipi i lettori delle sue azioni. Persino della luce del gioiello. Che non inonda solo Diabolik appunto. Ma anche chi legge. E vive insieme con lui le sue avventure. Momento per momento. Zarcone ha perso la memoria. Ma scopre non solo di essere il primo che ha disegnato Diabolik. Ma pure, soprattutto, di essere lui Diabolik. E perciò fa come Diabolik. Comunicando i suoi pensieri step by step.

 

Quindi, Giancarlo, le modalità esplicative connesse all’eloquenza degli occhi di Luciano Scarpa alias Zarcone – che sarebbe stato un perfetto Diabolik per i Manetti, più attratti dal personaggio di Eva Kant, divenuta la prima donna della letteratura a salvare il proprio uomo – sono il balloon?

Esattamente. Quel segno grafico a forma di nuvoletta per me è estremamente importante. Specie il balloon che – a differenza degli altri riguardanti gli urli, le frasi sussurrate, le parole, i dialoghi – comunica i pensieri dei personaggi per mezzo delle nuvolette con le bollicine. In Diabolik sono io, hai ragione, gli occhi e i silenzi sono accompagnati da parole che spiegano cose che in gran parte le immagini già comunicano. Ma le parole attengono a quelle nuvolette con le bollicine che hai individuato. Ed emergono indirettamente.

 

Con uno sforzo rigoroso. Tipico del lavoro di sottrazione. Che rispetto alle cose esplicite non mette in risalto nulla. Bensì suggerisce. Tra le cose suggerite c’è il nome di Eva scelto dalle Giussani per affiancare a Diabolik l’altra metà della mela?

Questo non lo so. Ma è probabile. Sei molto analitico. In effetti il cognome di Eva è qualcosa di esplicito ormai (riferito a Immanuel Kant, molto caro ad Angela Giussani che lo riteneva sin da quando era studentessa il miglior filosofo in assoluto). È una cosa che sanno tutti gli appassionati. Sul nome il mistero persiste. Ma la tua ipotesi è credibile. In Diabolik sono io ci stanno parecchie cose implicite ed esplicite.

 

Ed emergono cose parecchio curiose. Tipo quando, nel ricomporre i pezzi del passato, nell’universo di Diabolik, definito potenzialmente accanto a noi, si discute sul fatto che uccide quando qualcuno si mette sulla sua strada ma non commette mai i reati contro l’umanità e che il commissario Ginko che lo insegue sia il suo alterego anziché una sorta d’ispettore Zenigata. Che nel manga Lupin III torna a casa con le pive nel sacco. Le cose implicite legate al territorio e alla potenza dell’invisibile in Diabolik sono io fanno la differenza?

Il mistero della poesia, come sai, nasce dalle cose implicite. Rimaste in sospeso. Legate, oltre che alla correlazione tra habitat ed esseri umani, a un impianto narrativo meno a vista. L’informazione culturale del documentario è esplicita. L’ispirazione è implicita. Non spetta a me stabilire se questa ispirazione sia poetica o meno. Quello che sostengono le sorelle Giussani su Ginko, che non è un perdente, ma l’alterego di Diabolik, è qualcosa di non così evidente. Stessa cosa il codice deontologico di Diabolik. E di Zarcone che, indagando sui frammenti della sua labile memoria, si ricorda che il coltello è l’unico strumento con cui si sente autorizzato a dare la morte. Mentre avverte, e non sa bene perché, in quanto non  ricorda il passato, i trascorsi di Diabolik da ragazzo, le origini, che uccidere con la pistola, col piombo delle pallottole, sparando da lontano è inammissibile. Quello che faccio con i fumetti è avvicinarmi alle cose implicite, a quello che si crea togliendo e non aggiungendo, al sottotesto del mondo dei fumetti. Nell’approfondire queste faccende girare i miei film a Milano è fondamentale. Poi la Milano di Nessuno siamo perfetti, in cui dico la mia sull’amico Tiziano Scalvi (lo scrittore e fumettista “papà” di Dylan Dog), è diametralmente opposta dalla Milano di Diabolik sono io. La casa di Sclavi, di quando abitava a Milano, è un luogo riflessivo da filmare. Da riprendere. Perché rientra in quella geografia emozionale che come sostieni riverbera l’altalena degli stati d’animo e pure le cose implicite. Il sottotesto, insomma. Quella zona di Milano nel corso del tempo è cambiata. Hanno costruito dei palazzi, il paesaggio dal punto di vista esplicito non è più lo stesso. Io cerco di catturare l’anima di quel paesaggio. I ricordi. Gli stati d’animo connessi ai ricordi. Che sono impliciti. Congiunti a un’intersezione di cose piene di significato. Quando ho girato Nero (sulla base dell’omonimo romanzo di Sclavi) l’elemento dell’acqua trasfigurava Milano. Facendole acquisire un’identità differente dal solito. Come nei film in cui l’acqua la fa da padrona sul piano espressivo ed evocativo. Eppure, nonostante questa variante che ho voluto introdurre, era sempre Milano. Avendo lavorato molto con gli architetti e gli art designer mi piace tantissimo ricostruire un habitat in grado di rispecchiare profondamente il pensiero di chi era in sintonia con quell’humus. Quel territorio. È un modo di concepire il cinema per il quale la geografia emozionale va a braccetto con il senso più profondamente sentito di art designer.

 

Ne avevamo già parlato nella precedente intervista. Ma adesso mi offri il destro per riprendere il discorso e chiudere il cerchio. La tua sincera propensione al sound design e all’art design, nella sua accezione più ampia ed esaustiva, va ben oltre la moda intesa come il modo, la tendenza di punta, il gusto particolare di un momento che non dura nel tempo?

Hai colto nel segno. Ricordo bene che mi chiedesti in quell’intervista su Cercando Valentina – Il mondo di Guido Crepax se il design stesse superando la moda. Risposi, se la memoria non mi inganna, che l’intuizione dell’illustratore e designer Massimo Giacon di congiungere le esperienze maturate in entrambi gli ambiti aveva chiuso il cerchio in un certo senso. Concordo con te: il design ha per molti versi superato la moda. Specie quella che intendi al pari di qualcosa concernente l’abbigliamento per esempio che col tempo non è più attuale. Perché passa di moda: è vero. Nella ricerca del tempo perduto in cui gli ambienti assumono un’identità specifica i colori relativi al mondo dei disegni sono sempre attuali. Non passano mai di moda. Perché sono senza tempo. In quell’intervista nella domanda facevi implicitamente riferimento ai colori pastello delle pareti dei fumetti di Topolino. E in effetti in quel caso il motivo figurativo diventa motivo introspettivo. Conforme al carattere del racconto. In modo implicito ed esplicito. Accostare i colori nel mondo reale come nel mondo dei fumetti è una garanzia di successo. Perché innesca il valore dell’immaginazione. Le immagini psichedeliche ed extrasensoriali, per esempio, congiunte ai colori e al mondo dei fumetti creano una suggestione profonda. Che non svanisce nel tempo. Anzi dura nel tempo. Ed è bello coglierle.

 

Sono immagini che riflettono lo stato psichico ed emotivo del cinenauta. Che viaggia virtualmente quando guarda un film. Che tipo di viaggio è quello di Diabolik sono io?

Si tratta di un viaggio alla scoperta di tante cose. All’insegna della ricerca del tempo perduto di uno smemorato. Che non ricorda subito le cose. Prima le sente. Poi comincia lentamente a ricordarle. Mi piace la tua valutazione critica per cui la ricerca del tempo perduto non sia solo di Marcel Proust (autore di À la recherche du temps perdu). Bensì pure di autori minori rispetto a Proust e a personaggi che ricompongono la memoria come i pezzi di un puzzle. Il viaggio in tal senso mi ha spinto a vestire in maniera particolare i personaggi di Diabolik sono io. Lei, Claudia alias Eva Kant sui generis, l’ho vestita come la Tank Girl. Il personaggio dei fumetti. Insieme al sottotesto.

 

Che trae linfa dal sottosuolo dei gesti. A un certo punto la Tank Girl fa un gesto coi capelli. E si capisce che è Eva Kant. Vestita con altri abiti. Gli spettatori lì afferrano pure che non solo Zarcone è Diabolik ma che Eva Kant è Angela Giussani?

Esattamente. E si può pure spoilerare. Tanto, come hai notato, per me non è importante la storia. Bensì il viaggio.

 

Così come per Diabolik, una volta acciuffato, non conta il bottino. Ma quello che prova e trasmette ai lettori mentre si appresta ad acciuffarlo. Quel gesto taglia la testa al toro?

Era un gesto che Angela Giussani faceva spesso. In maniera molto naturale. Guardandola capivi che era lei Eva Kant. E che quel misterioso Zarcone, che ha disegnato per primo i celebri occhi di ghiaccio del re del terrore ispirandosi ai propri, perché li conosceva meglio degli altri essendo i suoi, è Diabolik. O almeno io la penso così. Avendo avvicinato Angela. Lei non me l’ha detto. Mi ha detto altre cose. Molte cose si dicono. I gesti si fanno. E comunicano più delle cose che si dicono.

 

E sono quei gesti a far capire che Diabolik innamorandosi di Eva Kant non mostra una crepa nella sua algida armatura, bensì la rafforza sulla scorta del calore umano. Un’ultima cosa Giancarlo e ci facciamo gli auguri: la capacità rivelativa dei gesti di Angela Giussani come si è svelata in modo chiaro?

Angela l’ho incontrata parecchie volte. Sono stato ospite, come ti ho detto, a casa loro. La loro redazione rimane un luogo molto fascinoso. E le cose non dette che ho visto con questa capacità rivelativa che riguarda la potenza dell’invisibile, il valore dell’immaginazione, l’intreccio di piste, d’ipotesi, i segnali, il piacere del puzzle, la fascinazione del giallo, tascabile e non, l’empatia che anima certi luoghi, determinati posti, gli effetti empatici riprodotti dal cinema: i filmini in super 8 che le Giussani mi mostravano erano sinceramente un po’ noiosi. Io mettendoli in Diabolik sono io li ho sdoganati dalla noia. Tu stesso hai parlato di Nuovo cinema Paradiso.

 

E ribadisco che quando vengono proiettati quei filmini, col passaggio dal bianco e nero al colore unito al rumore del proiettore legato alla musica, l’eco di Nuovo cinema Paradiso traspare. Nondimeno, cosa ha fatto Angela per ringraziarti in anticipo per aver reso belli i filmini in super 8 oltre ad averli visti con lei?

Quando sono tornato a casa mi sono accorto che nel regalo che mi aveva dato in redazione c’era scritto: buona fortuna.

 

Ha portato bene. Buon Natale, Giancarlo.

Buon Natale, Massimiliano.

 

Massimiliano Serriello