L’esordio dietro la macchina da presa del giovane ed erudito regista palermitano Giovanni Tortorici in Diciannove riesce ad amalgamare la conoscenza intima del tema rappresentato, ravvisabile nell’arduo seppur necessario passaggio dall’età verde all’età adulta, e le suggestioni esercitate sul versante stilistico dai propri numi tutelari nell’ambito della composita fabbrica dei sogni.

Rispetto alla miniserie televisiva We are who we are in cui ha collaborato in veste di assistente del poliedrico ed esperto collega Luca Guadagnino, che conferisce alla ricerca d’identità della condizione adolescenziale ed esistenziale in una base militare le risposte empatiche insite nell’assiduo uso dello slow motion, il ricorso al ralenti risulta maggiormente sentito. In virtù della chiara radice autobiografica. Necessaria a salvaguardare gli stravolgimenti espressionisti posti in essere per catturare appieno la passione per i testi antichi e i simboli del panorama rap emersi negli ultimi anni dai cascami ridondanti.

L’alter ego dell’autore alle prime armi, Leonardo, in procinto nell’estate del 2015 a lasciare il nido domestico per recarsi a Londra, dove già abita la spigliata sorella, innesca subito delle soggettive se non altro curiose. Giacché accostano per mezzo di un match cut visivo alla Jackson Pollock il sangue perso dal naso al pavimento a colori della camera abbandonata per conoscere il mondo. I paesaggi in teoria riflessivi che sfrecciano dal finestrino dell’automobile materna, mentre l’energica donna mette in riga l’acerbo rampollo, stentano a racchiudere all’atto pratico il senso della fuggevolezza dei legami di suolo accostati alla bell’e meglio a quelli di sangue. Alla risaputa corrispondenza tra habitat ed esseri umani, che non permette alle inquadrature delle località familiari l’elezione da sfondi poco più che esornativi ad attanti narrativi effettivamente carichi di significato, corrisponde un trattamento meno frettoloso della trasferta inglese. Sancita tanto dall’utilizzo virtuosistico del grandangolo, intento a convertire la percezione dei luoghi comuni in luoghi stranianti ed ergo tutti da scoprire benché colmi d’insidie, quanto nell’effetto di rallentamento accostato al dettaglio delle scarpe e degli stivaletti in giro per la giungla metropolitana notturna della Perfida Albione. Le reiterate correzioni di fuoco unite alle luci psichedeliche della discoteca, ai movimenti di macchina a schiaffo, ai baci fugaci, alle corse iconiche prese in prestito dai capolavori della Nouvelle Vague, Jules e Jim di François Truffaut sugli scudi, sembrano, invece, pagare dazio alla velleità dei compiaciuti segni d’ammicco. Ad alzare nuovamente l’asticella della densa scrittura per immagini provvede la tecnica di montaggio campo-controcampo. Svelta ad acciuffare tramite il riverbero dell’oblò che conduce Leonardo a Siena la natura inquietante d’un ermetico passeggero.

Ed è il preludio a un periodo di vita bizzarro, alienante e meditabondo. La decisione d’intraprendere gli studi letterari, conformi alla propria indole portata ad approfondire da autodidatta le doti oratorie dei poeti traendo partito dagli archetipi del passato che mandano a carte quarantotto il programma degli uggiosi corsi di business nel Regno Unito, innesca dapprincipio, una volta approdati in Toscana, alcuni programmatici carrelli da destra a sinistra. Lungi dal consentire all’intrinseco annuncio tra le righe di eventi imprevisti d’inserirvi la severità ammonitrice dei crudi ed elegiaci affreschi esistenziali di stampo nordico. La rappresentazione sulla carta inconsueta di situazioni consuete, come lo spaesamento di Leonardo, costretto obtorto collo a subire l’altalena degli stati d’animo della volubile concierge fiorentina dell’albergo limitrofo pur di beneficiare della rete internet per frivoli motivi di curiosità ed evidenziare così l’impasse del deleterio calo di personalità, cade nella trappola dell’inutile calligrafismo pseudo-intellettuale. Persuadono viceversa l’andirivieni di parole piene e parole vuote. Con la bestemmia rivolta a Dio pronunciata per una futile ragione. Conforme alla potenza d’ispirazione dei futuri guru della Settima arte. Lo confermano le argute tecniche di straniamento, l’atteggiamento di sfida col docente ostile al parere dei dantisti dell’emblematico diciannovesimo secolo, lo sdoppiamento tra sogno e realtà dovuto ai cavalli di battaglia ignorati dal professore col coltello dalla parte del manico. I collage bidimensionali provvisti degli esplicativi disegni congiunti ai versi immortali ai quali Leonardo continua ad abbeverarsi in autonomia attribuiscono un risalto piuttosto originale al quadro oppressivo che attanaglia il diciannovenne di belle speranze. Stramazza, al contrario, nel ridicolo involontario la pratica auto-erotica associata alla visione del grottesco ed epidermico apologo sulla schiavitù sessuale Salò o le 120 giornate di Sodoma diretto dal compianto Pier Paolo Pasolini.

Ridimensionato dal labile aspirante romanziere che, giunto a Torino, ospite del cugino superficiale ed edonista, blatera di morale da recuperare per poi svenire in seguito ai fumi dell’alcool. Il carattere d’autenticità garantito dal breve ritorno nella casa di Palermo per l’estate, che cementa pure l’estemporanea egemonia dell’estroversione – riscontrabile nella complicità con gli amici d’infanzia – sull’introversione, dona parecchia linfa alla geografia emozionale. L’apertura del diaframma padroneggiata dal deep focus chiarisce quindi la forza significante, rimasta dapprincipio sospesa in chiave programmatica, dei vincoli di sangue e di suolo. Il colpo d’occhio fornito anche dalla Contrada di Siena, ghermita dalla finestra della deprimente stanzetta, trascende la congerie dei pretenziosi colpi di gomito. Connessi in particolare all’accozzaglia disturbante dallo smalto formale dei monumenti d’origine medievale, delle sculture e dei quadri custoditi nei musei della città del Palio. Diciannove raggiunge il diapason sotto l’aspetto debitamente contenutistico nelle battute finali a Milano. Col facoltoso anfitrione che persuade l’arrogante giovanotto ad anteporre ai giudizi tranchant la sacrosanta sete di apprendere e il fermo proposito d’incidere positivamente nel pensiero altrui con il bagaglio di cultura ed esperienza formatosi strada facendo. Magari diventando, anziché un romanziere, l’artefice di pellicole ritenute agli albori del ventesimo secolo dei romanzi per analfabeti ed elette, poche primavere dopo, ad assolute opere d’arte. Lo status quasi di co-autorialità concesso dal perspicace Tortorici al misconosciuto ma bravissimo conterraneo Manfredi Marini, che nel ruolo di Leonardo raggiunge parecchi punti di correlazione col personaggio, risulta la ciliegina sulla torta dell’intera trama. Destinata ad appassionare miriadi di spettatori bisognosi di vedere accoppiati termostati culturali ed esilaranti siparietti tenuti a distanza siderale dagli iniqui gradi di separazione.


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