Disobedience: l’amore proibito tra Rachel Weisz e Rachel McAdams

Disobedience è tratto dal romanzo Disobbedienza di Naomi Alderman (edito nel 2007), una scrittrice di origini ebraiche cresciuta nella comunità ebreo-ortodossa di Hendon, a Londra. Trasferitasi a New York, la Alderman ha poi lavorato come sceneggiatrice per videgames come Zombies, Run! 2  e La mappa misteriosa.

Questa volta, con l’aiuto di Rebecca Lenkiewicz (Diario di una squillo per bene) e Sebastiàn Lelio, viene chiamata a sceneggiare il lungometraggio tratto dal suo libro di esordio.

La regia è affidata allo stesso Sebastiàn Lelio, cileno ma trapiantato a Berlino famoso per il film Gloria, che da quanto fu presentato al Film Festival di Berlino 2013 ha fatto incetta di premi, venendo perfino candidato agli Oscar 2014 come miglior film straniero. Disobedience è il suo primo film completamente in lingua inglese.

In effetti era necessario affidare la direzione di un film come questo a qualcuno che avesse già affrontato tematiche tanto delicate. Il tema della omosessualità all’interno della chiusissima comunità ebreo-ortodossa londinese è davvero un argomento spinoso.

A volere fortemente la trasposizione filmica del libro di Naomi Alderman è stata una delle attrici protagonista, Rachel Weisz, famosa per il suo amore e il suo impegno professionale in ruoli mai semplici o superficiali.

Di fatto, Disobedience è una produzione della Weisz e di Frida Torresblanco (Il labirinto del Fauno) in accordo con Ed Guiney (The lobster).

In un quartiere a Nord di Londra vive una comunità ortodossa di ebrei che seguono rigidissime regole e non escono al di fuori del loro quartiere e della “loro” gente. Il Rabbi anziano della sinagoga, però, muore d’improvviso, e nell’organizzare la veglia funebre la piccola, bigotta comunità si troverà a fronteggiare il ritorno della figlia ribelle del Rabbi defunto. Ronit Krushka (Rachel Weisz) è un’affermata fotografa inglese trapiantata in America, che deve tornare nella natia Londra alla morte del padre rabbino. Se inizialmente avvertiamo solo l’estremo disagio della comunità ebraica inglese alla presenza di Ronit, man mano che il film prosegue si scopre che non solo l’unica figlia del Rabbi era stata da lui diseredata, ma la donna viene considerata una peccatrice sacrilega per aver avuto un amore giovanile con Esti (Rachel McAdams), adesso pienamente parte della comunità ortodossa e sposata con Dovid (Alessandro Nivola). Ma la storia tende a ripetersi e lo scandalo è dietro l’angolo.

Che le fedi ortodosse siano spesso fonte di bigottismo e ottusità è, purtroppo, un dato di fatto, e, spesso e volentieri, il cinema funge da testimone e va ad indagare anche gli aspetti più scabrosi di certe vicende.

Il tema della libertà, che dovrebbe essere il punto focale di Disobedience, viene trattato con le dovute precauzioni. Dapprima taciuto, poi sussurrato (il film è fatto di “mugugnii”, fateci caso) e, infine, nel discorso di rabbi Dovid, urlato e pianto. Perché abbracciare la libertà, quando per tutta la vita si è vissuti sotto il giogo delle limitazioni, è un atto di ribellione, di disobbedienza.

Tuttavia, seppur le tematiche affrontate dal film di Lelio sarebbero nobili e giustificabili, il modo in cui si sceglie di metterle in scena non sempre è azzeccato.

A partire dall’infinita lentezza di scene bisognose di tagli e inquadrature più accattivanti, la storia – complice anche lo snervante sottofondo al pianoforte – diventa morbosa. E scansa la connotazione sobria della prima parte di film, indulgendo in  torbide e non necessarie sequenze di sesso femminile che fanno dello spettatore un forzato voyeur. Peccato, perché il rapporto tra Ronit ed Esti fino a quel momento era stato bellissimo, mostrato nella propria delicatezza e dolcezza, nascosto dal pudore personale, dal timore di poter essere scoperte, eppure toccante grazie al gioco di sguardi e gesti delle due bravissime protagoniste.

L’aver voluto mostrare tutto il mostrabile nella scene di intimità costituisce una caduta di stile di Lelio, che forse sperava di ingraziarsi i favori della critica, aspirando all’ambito status (ora tanto in voga) di regista indipendente che non ha paura della censura.

Ma allora tutto il discorso sulla libertà che il film aveva fatto fino a poco prima decade miseramente, esibendo in maniera banale qualcosa che doveva essere pura intimità e libera passione tra due individui.

Disobedience è, in definitiva, un film contraddittorio, che si fa portavoce di un messaggio importantissimo, come quello del libero arbitrio e del rispetto dell’intimità delle persone di tutto il mondo, per poi contravvenire ai propri dettami prefissi, negandoci la possibilità di un pensiero indipendente.

 

 

Giulia Anastasi