Il debutto alla regia per l’attore Louis Garrel, Due amici, sembra in qualche maniera essere l’alternativa (letteralmente) scarnificata del Mektoub, my love di Abdellatif Kechiche.
Dove in uno vi sono corpi vibranti, nell’altro c’è l’empasse del blocco emotivo, in un dramma da camera (in esterna) stretto nelle maglie del sistema produttivo/autoriale dal quale esce.
Relazioni che coprono l’intera gamma – dalla famiglia, alla coppia, agli amici – servono al cinema francese, e a Garrel, per riflettere sul senso dei sentimenti calati nella società di oggi, su figure umane disadorne e spogliate da ogni altra sovrastruttura che non siano, appunto, i propri sentimenti, unica cosa che possiedono e possono – malamente – governare.
E, se il ritratto fatto del triangolo poliamoroso potrebbe risultare ad un primo sguardo facile o facilone, a seconda dei punti di vista, l’immersione in quella insostenibile leggerezza conferisce ai personaggi una tragica verità che, all’improvviso, li fa balzare fuori dallo schermo, dritti sul cuore.
C’è la Nouvelle Vague, certo, come gli irriducibili Jules e Jim e tutta quella filera di riferimenti che rendono l’aria familiare. Ma c’è anche un gusto del regista a voler guardare tutto da un suo punto di vista altro, banale, magari, ma pur sempre personale.
Disillusione e amarezza sono i filtri attraverso cui Garrel prova l’innocenza dei suoi personaggi, smarriti nel loro percorso e ritratti mentre hanno dimenticato il punto di partenza del proprio sentiero emotivo, nonché incapaci di anche solo intravedere un punto di arrivo, in un continuo ridimensionamento narrativo che provoca straniamento ma anche inevitabile, inguaribile affetto per quelle figurine colpevoli, eppure innocenti.
C’è Clément (Vincent Macaigne) che fa la comparsa sui set ed è innamorato di Mona (Golshifteh Farahani), ragazza con un piccolo grande segreto che la rende, inevitabilmente, misteriosa quanto affascinante. Poi c’è Abel (Garrel stesso), amico di Clement, a cui il giovane attore chiede di fargli da ruffiano e che, ovviamente, come da copione si trova impelagato suo malgrado in un doloroso triangolo d’amore.
Insomma, niente di nuovo sotto il sole, se non fosse per quella patina romantica che ha echi di realtà, per quella dolorosa consapevolezza dell’autore e degli attori, per quel gusto cinefilo e magari sadico di ricondurre la realtà alla finzione, di commissionare cinema e verità fino a non saper più distinguere la sofferenza dall’amore per la sofferenza stessa. Perché ogni storia d’amore, si sa, è un gioco di potere: vince solo chi sopraffa prima l’altro.
GianLorenzo Franzì
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