È la frase del calciatore Diego Armando Maradona “Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male” ad introdurre È stata la mano di Dio, diretto dal cineasta napoletano Paolo Sorrentino per la piattaforma streaming Netflix, sebbene ne sia prevista anche un’uscita nelle sale cinematografiche.
Del resto, l’arrivo nella squadra del capoluogo campano del campione deceduto nel 2020 altro non è che una delle gioie inattese destinate a costellare la vita del giovane Fabietto Schisa alias Filippo Storti, chiara incarnazione adolescenziale in fotogrammi di colui cui dobbiamo L’uomo in più e This must be the place.
Perché, se con l’oscarizzato La grande bellezza aveva concretizzato la sua risposta a La dolce vita e tramite il successivo Youth – La giovinezza aveva provveduto a confezionare il proprio omaggio a 8½, è Amarcord che prende in questo caso in considerazione, della filmografia di Federico Fellini, per mettere in piedi le circa due ore e dieci di visione.
Circa due ore e dieci durante le quali, non a caso, vengono tirati in ballo anche provini effettuati dal maestro riminese della Settima arte, che non viene mostrato ma che apprendiamo pensi che il cinema non serva a niente, se non a distrarre dalla realtà che è scadente.
Una realtà che è qui quella della tumultuosa Napoli degli anni Ottanta, dove il citato protagonista, che scopriamo oltretutto ammiratore del regista Antonio Capuano, si trova ad avere a che fare con le quotidiane situazioni che ne indicano progressivamente la strada per il suo futuro.
Un futuro verso cui la figura di Maradona sembra incarnare metaforicamente la perseveranza; mentre facciamo conoscenza con i diversi familiari del ragazzo, a cominciare dalla madre Maria e dal padre Saverio, ovvero Teresa Saponangelo e Toni Servillo. Un Toni Servillo al quale Sorrentino fa dichiarare che in casa non comprano una televisione fornita di telecomando perché sono comunisti, quindi onesti a livello interiore; impegnandosi così tanto a fargli sfoderare il proprio pensiero politico da dimenticare che nel 1984 in cui si trovano non esisteva l’edizione home video di C’era una volta in America di Sergio Leone che, invece, loro possiedono.
Un’inesattezza storica che non può fare a meno di regalarci soltanto uno dei giustamente criticabili aspetti dell’ennesimo, soporifero resoconto da grande schermo dei ricordi appartenenti ad un radical chic facente parte di coloro che operano dietro la macchina da presa tricolore del XXI secolo. Ricordi di cui, quindi, un po’ come era già avvenuto in Anni felici di Daniele Luchetti, non interessa praticamente nulla a nessuno (o quasi); ovviamente tempestati delle malsane turbe sessuali giovanili, tipiche di questi individui troppo frettolosamente elevati a “maestri” dalla critica più facilona e meno propensa a documentarsi nella giusta maniera. Sarebbe sufficiente menzionare la malsana attrazione proto-Samperi che Fabietto prova nei confronti della problematica zia Patrizia, cui concede anima e nudissimo corpo Luisa Ranieri, o la sequenza in compagnia della baronessa Focale interpretata da Betty Pedrazzi, in un certo senso variante di quella che vedeva coinvolta la tabaccaia proprio in Amarcord.

Per il resto, man mano che viene affermato che non si sa mai cosa succede veramente nelle case degli altri, È stata la mano di Dio spinge a sfoderare elogi rivolti esclusivamente alla fotografia di Daria D’Antonio e al nutritissimo ottimo cast, comprendente nel mucchio Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Lino Musella e Marlon Joubety. Perché, senza evitare neppure d’incappare in personaggi decisamente inutili (si pensi all’attricetta teatrale Yulia, Sofya Gershevich), il tutto non si riduce altro che ad una fiacca sequela di tavolate mangerecce, tuffi a non finire per esaltare fino alla nausea la paesaggistica partenopea, ironia difficilmente capace di strappare risate e furbo ricorso alla tematica dell’elaborazione del lutto.
Con tanto di banalissime scelte di elementi già sfruttati altrove, come l’immagine del bambino visto dal treno a simboleggiare l’inizio della crescita e l’utilizzo di Napule è di Pino Daniele nei titoli di coda, provenienti l’una da Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e l’altra da Caccia al tesoro di Carlo Vanzina.
Francesco Lomuscio
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