El Chicano: crimine, vendetta e leggende messicane

L’influenza esercitata dagli stilisti visivi che guardano al fondo dell’abisso, riuscendo ad amalgamare la paura dell’ignoto all’ancestrale senso d’instabilità dei thriller metropolitani, spinge l’abile ed esperto stuntman Ben Hernandez Bray a esordire come regista con El Chicano, disponibile a partire dal 6 Agosto 2020 sulle piattaforme digitali Sky Prima Fila, Chili, Tim Vision, Apple Tv, Google Play e Infinity.

Il furore del cuore affidato all’effigie, a onor del vero piuttosto stantia, della pioggia battente, con la perdita dell’innocenza che permea lo sguardo di due fratelli gemelli destinati a scegliere percorsi esistenziali diametralmente opposti, innesca il ricorso agli stilemi dell’evocativo noir virile. Lo scarso approfondimento psicologico congiunto invece alla correlazione oggettiva tra personaggi e habitat, l’East Los Angeles per l’esattezza, considerata un pezzo di Messico dai malavitosi ostili all’egida angloamericana, palesa l’assenza degli opportuni timbri antropologici ed etnologici.

Nondimeno la ricerca del tempo perduto, frammista all’uso del flashback, benché risaputo, contribuisce a mettere in cantiere un apologo sui legami di sangue dipanato sotto il segno della morte e del bisogno di portare a galla la verità nascosta. Legata alla tragica fine dell’inquieta pecora nera. Immersa nell’atroce perdizione dal giorno della scoperta dei sacrifici umani contemplati dalla cultura azteca. Ritenuti un marchio distintivo d’indomita autonomia rispetto all’egida degli eredi dei coloni europei. La tecnica espressionistica che associa i rumori reali al sordo ed empatico rimbombo di quelli irreali cede presto il passo ai richiami in chiaroscuro. Con la canonica sagoma al buio del detective inquadrato di profilo che indaga sull’oscura dipartita in questione e sull’unica traccia percorribile costituita da un tatuaggio rivelatore. La data del suo compleanno, ed ergo anche dello scellerato doppio attratto dall’eversione dell’università della strada, si va ad aggiungere all’inevitabile rischio dell’imprevisto. Privo però delle componenti semiotiche necessarie a salvaguardare le pieghe poliziesche dallo scontato margine d’enigma incapace di unire agli sviluppi dell’intreccio l’egemonia delle sfumature introspettive sugli accenti action. Il fermo desiderio di trarre linfa dal consueto ginepraio d’ipotesi da parte dell’industrioso esordiente, forte dell’abile sceneggiatura scritta dall’accorto Joe Carnahan, autore con The grey del plot d’un survival movie persuasivo tanto sul versante avventuroso quanto su quello intimistico, agevola comunque, step by step, l’idoneo salto di qualità. Sebbene i fantasmi privati che tormentano il tutore dell’ordine pubblico risultino piuttosto convenzionali, al pari degli stilemi del cinema d’atmosfera nella centrale di polizia, lo spettro paventato dal fardello della disfatta converte, a lungo andare, l’evidente tallone d’Achille in una variante perlomeno curiosa.

Giacché inattesa. La scelta di prediligere in zona Cesarini gli elementi di presa immediata graditi alle grandi platee, poco avvezze ai dispendi di fosforo richiesti dagli intellettuali, o presunti tali, può sembrare discutibile. Eppure l’insicurezza dei rapporti, la caccia ai colpevoli, l’irruenza, frutto dello spirito focoso, col contraltare della prudenza, tipica dell’indagine che palmo a palmo chiude il cerchio, giovano al mutamento di rotta. Si tratterebbe di una chiara involuzione se l’incanto formale della parabola sul dolore acuito dalla cieca violenza dei cartelli della droga avesse composto in precedenza un intarsio davvero misterioso ed esoterico in grado di conferire polivalenza significante al referto sociologico per poi perdere colpi sterzando nell’humus della stigmatizzata spettacolarità. Al contrario l’auspicata resa dei conti, giunta al termine dell’ordinario occultamento dei crimini compiuti a ogni piè sospinto e dell’accertamento a corto d’ingegno, reo, infatti, di cercare un’improbabile svolta contenutistica accostando l’esplicito clima di mistero agli intrinseci incubi del cupio dissolvi, confondendo horror e fantascienza, sembra liberarsi da una corda perniciosa col tonico rimando ad Arma letale. Così la pesantezza del taedium vitae, che rischiava di cadere nell’irreparabile intralcio della noia vera e propria, è sopperita dall’amor vitae. Esibito dall’interazione tra i valori plastici e l’alto tasso adrenalinico apportato dall’eroismo. Che sgomina le velleità dei torture movie, lascia a bocca asciutta il pubblico che gode ad avere paura, costringe i seguaci dell’aura contemplativa a bere l’amaro calice.

Dando la carica al coinvolgente epilogo. Anziché concepire inattendibili astrattismi psichedelici fondendo lo sguardo critico sul narcotraffico in America alle dispute etniche e all’incubo degli arcani inni di guerra. Un film da vedere a mente riposata, per comprenderne i nessi religiosi, diviene un’opera destinata persino al pubblico munito di semplice licenza elementare. È uno sbaglio? O rappresenta l’ennesimo esempio dell’assoluta virtù della Settima arte di riempire il vuoto emotivo di chi assiste al dipanarsi delle tenebrose peripezie tenendolo sui carboni ardenti ora per mezzo del talento di scrivere con la luce, ora grazie al dono dell’inopinata semplicità? La risposta è affidata alla scelta degli interpreti. Certamente non dei mostri sacri che lavorano sui personaggi sulla scorta degli ammaestramenti dell’altero Metodo Stanislavskij. Bensì degli attori dal volto scolpito nella pietra, un po’ alla Clint Eastwood, tenebroso, fragile in determinati frangenti. Nel cast, in tal senso, spicca Raúl Castillo nel ruolo dello sbirro ritenuto schiavo dei gringo dalla feccia dedita all’economia sommersa e al gusto della perfidia. Mentre il peso specifico dei dialoghi lascia a desiderare, con i guanti di sfida lanciati sull’imitazione fuori luogo del genere western, tralignando nel plagio gli omaggi, certi eloquenti silenzi fungono da battistrada alla palingenesi conclusiva dell’imprevedibile supereroe del titolo. Simile per alcuni versi al Keyser Söze del cult I soliti sospetti per l’attitudine al colpo di scena culminante. Che strappa addirittura vivaci sorrisetti.

 

 

Massimiliano Serriello