Ci sono dischi che non si ascoltano, si abitano. “Antiche melodie d’amore” è uno di questi. Il debutto di Elisabetta Previati è un piccolo scrigno di storie, ricordi e immagini sospese, come fotografie di un tempo sfumato, forse immaginato, ma vivido nei suoni e nelle parole.

Elisabetta Previati – Antiche melodie d’amore
Si comincia con Queste tue parole d’amore, e fin da subito si ha la sensazione di entrare in una dimensione intima, quasi sacra. Il brano è una dedica semplice e profonda al marito, ma non è mai smielato: c’è un’eleganza d’altri tempi, come se si stesse leggendo una lettera scritta a mano, con inchiostro blu e carta ruvida. La voce di Elisabetta accarezza le parole, e gli arrangiamenti – delicati, curati – costruiscono uno spazio di quiete.
Segue Antica melodia d’amore, la canzone che dà il titolo all’album e che sembra davvero provenire da un tempo lontano. È quasi un lied moderno, con un tocco folk, dove si percepisce il desiderio di fissare l’amore nella memoria, come se fosse una melodia da tramandare, una reliquia affettiva. Sapere che è stata regalata agli ospiti del matrimonio le dà ancora più valore simbolico.
Con Il canto del bosco si entra in una dimensione naturalistica e quasi infantile. È una delle tracce più evocative del disco, nata durante una passeggiata tra i boschi tedeschi con il figlio. Qui la voce si fa più leggera, il tempo rallenta, e il suono degli strumenti richiama il fruscio delle foglie, l’eco tra gli alberi. È una pausa contemplativa, un inno silenzioso alla meraviglia.
Poi arriva Caro Scott, ed è come se tutto cambiasse. Il tono si fa più scuro, più intimo. Elisabetta dà voce a Zelda Fitzgerald, la moglie dimenticata, e la sua interpretazione è toccante. Il brano è impregnato di malinconia, ma anche di forza: c’è il desiderio di raccontare un’altra versione della storia, quella della donna silenziata. Musicalmente, è uno dei pezzi più densi, con armonie struggenti che sembrano venire da un film in bianco e nero.
Emily, dedicata a Emily Dickinson, è un altro gioiello di poesia. Qui la voce si fa eterea, quasi sussurrata, e la musica segue con rispetto, lasciando spazio alle parole. È come entrare nella stanza della poetessa, osservare il mondo dal suo punto di vista, dove anche l’invisibile ha un peso e un colore. Il brano è breve ma lascia un segno profondo, come un haiku in musica.
E poi, The Ballad of the Ghost Lady in the Rock spezza l’atmosfera con una ventata folk internazionale. Il racconto giapponese da cui prende ispirazione si intreccia con sonorità acustiche e un duetto delicatissimo con Gareth Bonello. È una ballata che si ascolta come una fiaba raccontata davanti al fuoco, tra sussurri e fantasmi gentili.
Con Where are you now l’album prende una piega inaspettata. Le atmosfere si fanno rarefatte, quasi elettroniche, ed è come essere dentro un sogno malinconico. Elisabetta si ispira a Sylvia Plath e alla sua sensibilità tormentata, e la musica segue con un tappeto sonoro fatto di piccoli battiti, glitch, e linee vocali sospese. È una parentesi di rottura e di profondità psicologica.
Le vele incerte è una riflessione personale sulla vita da expat, sullo spaesamento, sull’essere sospesi tra mondi. La musica qui è leggera ma incerta, come il titolo suggerisce, e l’andamento del brano rende perfettamente la sensazione di trovarsi in mare aperto, alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Verso la fine, Ninna nanna per questo amore porta una tenerezza particolare. È una canzone d’amore finito, ma non c’è rancore: solo dolcezza, accettazione. Una melodia semplice, che avvolge e consola. È una delle canzoni più “pure” del disco, e colpisce proprio per la sua onestà disarmante.
Infine, Un sorriso solo chiude l’album con un senso di apertura. Nonostante il titolo e le sonorità delicate, è una chiusura luminosa, che invita alla speranza. Un sorriso – anche solo uno – può salvare. È un messaggio semplice, ma potente, e resta a lungo dopo l’ultimo accordo.
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