Dopo aver speso invano il proprio pur fulgido estro autoriale nei pretenziosi biopic Neruda e Jackie, cercando d’impreziosire le trame aggiungendo pleonastiche varianti visionarie nella pretesa di ricavarne degli inediti cortocircuiti poetici carichi di senso, l’abile ma discontinuo regista cileno Pablo Larraín torna con Ema ad accoppiare ai risultati estetici dei fulgidi valori interiori alieni a fronzoli od orpelli vari.
Il crepitio dell’implacabile fuoco, l’effigie dell’insolito semaforo in fiamme, l’interazione tra i personaggi e l’habitat, col sorgere dell’aurora incapace di lenire l’inquietudine che serpeggia nell’aria, apre le danze in chiave metaforica ed evocativa. L’inquadratura in piano sequenza dell’omonima protagonista, Ema, lungo corridoi simili a quelli scandagliati da Nicolas Winding Refn in Drive, per conferire agli stilemi del cinema da camera lo stesso stato di fibrillazione delle vertiginose corse esibite negli action movie, trascende i limiti degli autocompiaciuti colpi di gomito. I sovrani ed eloquenti silenzi connessi alle prove di ballo, in grado di creare una realtà alternativa rispetto all’angoscia della coppia in crisi, acquistano subito la forza significante degli affondi amari ma al contempo rivelatori.
Il ricorso ai raccordi del montaggio alternato, per passare dalla straniante armonia della pantomina collettiva alla disarmonica soggettiva dell’afflitto Gastòn, permette all’aura assorta di trarre linfa dall’ingegnoso ritmo che dà le vertigini ed esprime i batticuori dei rimpianti senza convertire l’opportuno nitore poetico in vieto poeticismo. Memore dell’atmosfera d’incertezza impressa nel previo Il club, alternando interni claustrofobici ed esterni vaneggiatori per favorire la palingenesi dei timbri figurativi in compiuti riverberi introspettivi, Larraín desta profonde emozioni con l’innesto dell’avvertita componente luministica. Sebbene il rimpianto della sintomatica luce, acuito dal leitmotiv delle penombre psicologiche, risulti maggiormente programmatico rispetto all’apologo sul bene e sul male che svelava i motivi d’imbarazzo d’una consorteria d’incerti uomini di Dio, chiamati a rispondere dei torti commessi, l’intreccio tocca la corda giusta. Rifuggendo dall’impasse degli esercizi formali. La densità contenutistica ravvisabile nel cambio di paradigma che garantisce notevole pathos ai fluidi movimenti di macchina in avanti, per cogliere nei mesti sguardi degli operatori sociali lo sdegno dipinto sui compositi volti in seguito alla scelta dell’incupita ballerina di rinunciare all’adozione del piccolo Polo, non mena certo il can per l’aia. Mentre l’uso del grandangolo nell’appartamento dei coniugi immersi nella propria solitudine stenta ad assumere una funzione davvero creativa, giacché costeggia gli arcinoti stratagemmi della distanza focale senza mai ingrandire lo spazio al chiuso ed ergo soccorrere la chimera dell’insita speranza, i carrelli all’indietro raggiungono il diapason.
L’incolmabile distanza stabilita dall’incomunicabilità, anziché indulgere ad aggiunte oniriche come in Neruda, nella speranza d’impreziosire una trama altrimenti analoga a Heat – La sfida di Michael Mann, coniuga le suggestive risorse del mezzo tecnico con l’assoluto slancio dell’afflato poetico. Al contrario del vanaglorioso ritratto muliebre Jackie, con gli elementi ambientali costretti a sottostare all’ovvia altalena d’infinito scoramento ed empatica serenità, Ema evita accuratamente d’intopparsi in meri ricalchi dell’alienazione cara ad Antonioni. L’insolita unione dell’impianto meditabondo, al servizio del pluralismo dei punti di vista, coi contrassegni imperniati sulla crudezza oggettiva suggella l’originale polivalenza dell’impasto di amore e rancore alieno al superfluo sovraccarico delle trovate attinte all’estro altrui. L’immagine di Ema che si dimena con energia ed eleganza, in mezzo alla gamma cromatica del crepuscolo, la profondità di campo ivi congiunta, il vigore drammatico degli scontri, le tenere speranze infrante contro lo scoglio dell’egoismo, l’origine dell’inquietudine, sottesa all’intrinseca simbologia metafisica, rapiscono persino nella commozione. Invece di anteporre la gelatina degli arzigogoli intellettuali alla linearità dell’anima. Connessa al cuore d’ogni autore interessato a esplorare la natura dei sentimenti. Ora accolti, ora rigettati.
Lo sfogo di frustrazione del marito, impersonato con rimarchevole sensibilità dall’ormai esperto attore feticcio Gael García Bernal, rimedia grazie allo spettacolo recitativo alle componenti manieristiche che sanciscono la deleteria battuta d’arresto dell’erudita tenuta stilistica. Rinfrancata da lì a poco sulla scorta di un coinvolgente slow motion che cattura l’eterna lotta di Thanatos ed Eros. Con i gemiti della fugace brama erotica frammisti al funesto cupio dissolvi. Che l’inane dinamismo dell’azione, affidato ai dinamici volteggi sulle note della musica da discoteca, rende ancor più evidente. Il rifiuto dell’enfasi mélo, che sa di predicatorio, innesca l’alternarsi di scene serrate ed emblematici semitoni ai fini un’analisi della fuga dal presente e del ricordo dell’intesa passata scevra dalla sommarietà dello psicodramma. L’inopinato crescendo conclusivo, che accantona l’algido ordine razionale per recuperare nel sottosuolo dei calorosi gesti il palpito di passione promosso ad antidoto alla caducità dell’esistenza, certifica l’acume del redivivo Larraín. La cui mano maestra, vinta l’inidonea voluttà di connettere il rapimento dell’estasi allo specchio per le allodole delle opere di genere, sciorina una coerenza lirica capace di togliere il respiro. Condensando nella disperata ricerca della felicità e nel lavoro di sottrazione, che dona alla suspense un alone di mistero fuori dall’ordinario, la sapienza delle note gravi. Giustapposte al vacuo rimbombo folk. La toccante mimica della bravissima Mariana Di Girolamo consente così a Ema di congiungere infine ai tratti distintivi del racconto morale l’empito determinante di chi parla con gli occhi e riscatta in extremis l’input prezioso della coscienza.
Massimiliano Serriello
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