Archiviato il vanaglorioso tentativo di appaiare in Parigi, 13Arr (Les Olympiades) commedia sentimentale ed eleganza formale, per anteporre alla propensione a mettere una carezza nel pugno caro al nostro Celentano gli alienanti spasimi dell’età verde racchiusa in un quartiere di torri  quadrangolari assai poco cartolinesche dove le canoniche slogature delle emozioni vengono alla luce sulla scorta dell’uso virtuosistico del bianco e nero, l’esperto regista francese Jacques Audiard torna con Emilia Pérez ad approfondire gli stilemi contenutistici dell’affresco macho-noir attraverso l’opportuna contaminazione dei generi.

Lo scopo dichiarato risiede nel raggiungere l’anima dei personaggi muliebri inseriti in una società attanagliata dall’iniqua egemonia della materia sullo spirito per mezzo d’un apologo in chiave musical sul corpo e sulla voce. Ragion per cui ai funzionali score composti in lingua spagnola da Clément Ducol & Camille (El mal, Mi vida, Perdoname, El camino sugli scudi), intonati con magnetico slancio ed empatia dal cast d’attrici insignite dell’ambìto Prix d’interprétation féminine nella settantasettesima edizione del Festival di Cannes (Zoe Saldaña, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez e Adriana Paz), si accompagna il compiuto linguaggio del corpo. Dispiegato negli appositi numeri di danza.

Anche se il carattere d’ingegno creativo ad appannaggio d’inobliabili cult della levatura di West Side Story non è nemmeno sfiorato dalle ovvie collocazioni codificate delle sequenze coreografiche, sprovviste della fragranza dell’originalità riscontrabile tanto nell’impasto di stili diametralmente opposti tra loro quanto nelle spiazzanti improvvisazioni, il cosiddetto engagement risulta lo stesso efficace. I timbri antropologici ed etnografici connessi all’università della strada, coinvolta da copione nelle modalità esplicative dello stream of consciousness dell’avvocato aziendale in gonnella Rita Moro Castro, pur non rovesciando alcuna norma accademica, cementano l’astuzia della confezione. Il medesimo discorso vale per lo skyline notturno di Città del Messico, per i carrelli ora in avanti ora all’indietro, ben lontani dall’estro degli audaci sperimentalismi tecnici ed espressivi, ma ugualmente in possesso d’un riverbero drammatico tutt’altro che trascurabile. Al pari dei piani ravvicinati sul volto neolitico del sovrano ormai incontrastato dei cartelli della droga, Manitas Del Monte, intento sulla scorta del timbro roco che sembra giungere dall’oltretomba a reclutare Rita per un incarico fuori del comune. Sparare subito la cartuccia d’un boss della criminalità nel pieno del processo di transizione sessuale, a dispetto dell’affetto sincero nutrito per moglie e figli, significa riflettere l’irrealtà contemporanea, che cattura l’attenzione del pubblico allergico ai dispendi di fosforo e al carattere d’autenticità delle opere d’impegno civile, ed ergo trarre partito dalla suggestione da patchwork popolare di gialli cool tipo I soliti sospetti. Attenti, però, a riservare solo ed esclusivamente nel finale il piatto forte del rivelatorio colpo di scena. Tuttavia la composita scrittura per immagini, avvezza a dare un colpo al cerchio della ricercatezza del cinema di pensiero e l’altro alla botte dell’immediatezza di quello commerciale, ricava dall’alacre composizione d’ogni inquadratura carica di senso l’antidoto ideale contro le polveri bagnate dei direttori d’orchestra a corto d’idee. L’ampio mosaico di spunti ed eventi, sia pure attinti sotto parecchi aspetti ad Annette di Leos Carax e Teefa in trouble di Ahsan Rahim, coi risvolti narrativi squadernati in giro per il pianeta (dal Sud America alla Svizzera; dalla Perfida Albione alla Thailandia), tiene comunque gli spettatori, ingenui ed eruditi che siano, incollati alla poltrona.

La figura del dr. Wasserman, reclutato a Tel Aviv per l’ardua operazione di cambio sesso da portare a termine in gran segreto, resta in testa. Specie quando specifica di non poter mutare la natura incorporea delle persone. Il suo secco confronto convertito in duetto canoro con Rita, munita della notevole precisione di accenti significativi ed epidermici gesti impressile dalla versatile Zoe Saldaña, rendendo al meglio il passaggio da azzeccagarbugli locale di basso profilo a donna di mondo d’alto rango, benché non costituisca una tappa memorabile nella storia della fabbrica dei sogni, coglie nel segno. L’effigie di quinta dell’ex pezzo da novanta divenuto Emilia Pérez testimonia l’ottimo mestiere dell’ispirato Audiard. Degno d’encomio nel tenere qualsivoglia platea sui carboni ardenti in virtù dell’indubbia capacità di unire il sentimento d’insicurezza insito nei classici thriller all’aura contemplativa delle polivalenti vicende dalle ambizioni liriche. Piuttosto velleitario, invece, nel cercare di congiungere l’esplosiva ambiguità della poesia alla palingenesi in questione nonché ai programmatici pistolotti sottobanco in merito alla cultura e al modo d’intendere l’esistenza che cambia, o dovrebbe cambiare, insieme al corpo. Per razionalizzare l’assurdo, raggiungendo così effettive vette poetiche, non è sufficiente la parola in codice con la quale Rita riconosce l’identità nascosta dell’efferato Manitas nei tratti gentili della conterranea Emilia nella cena di gala a Londra. L’alterazione acustica bassa e virilmente incavata, posta in evidenza dapprincipio sulla scorta d’un’apposita tecnica di straniamento legata alla sospensione sinfonica, pronta a riaffiorare dai meandri insepolti quando l’avvenente Jessi, fittizia vedova del grosso calibro desideroso d’invertire la tendenza, si appresta a separare la tenera prole dalla presunta zia Emilia, ripristina a mo’ di colpo di gomito il ritmo violento dei previi titoli che hanno eletto il risoluto Jacques ad autore acclamato dalle folle avide di sensazioni vigorose: Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa e Dheepan – Una nuova vita. Nello sguardo invece d’intesa della prodiga signora Pérez, a capo d’una Omg a sostegno delle famiglie d’individui scomparsi, con l’immusonita Epifanía, consorte ritrosa d’uno dei molteplici desaparecidos appartenenti al cartello rivale di Del Monte, cementando l’affinità elettiva dell’istinto di conservazione sancito dal ricorso in filigrana ad armi bianche e da fuoco, rispolvera l’acuta attenzione ai semitoni dimostrata da Audiard ai tempi di Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore.

Le incursioni, oltre che nel balletto, pure nell’horror spurio non passano dunque inosservate. Lo sforzo di disporre nelle simmetrie di determinate melodie in movimento l’equivalente dei sussulti reconditi, in grado di coniugare i suoni altresì stridoli e cavernosi all’altalena degli stati d’animo perennemente all’erta, perviene a esiti decisamente persuasivi. La statura interpretativa della misconosciuta transgender iberica Karla Sofía Gascón, che incarna Manitas Del Monte ed Emilia Pérez con il piglio risoluto ed etereo delle incontrastate stelle della recitazione, acquista un tale spicco step by step da apparire già in odore di Oscar. Le tengono parcamente testa, privilegiando l’austero ma al contempo nobile lavoro di sottrazione all’istrionica smania di aggiungere ammiccanti particolari, Selena Gomes nei panni dell’inquieta Jessi, che scopre l’arcano in zona Cesarini a un tiro di schioppo dell’abisso, e Adriana Paz. Nelle vesti solari, celate dall’acchito malinconico, di Epifanía. La centralità delle dense ed evocative vibrazioni batte sentieri ampiamente collaudati, nell’ordine sia del crime-movie sia del mélo meditativo, risolvendo spesso in scaltri elementi spettacolari gli elegiaci rintocchi. Mischiando a mestiere i miasmi dei deserti macchiati di sangue alla mistica aurora della balsamica redenzione. Audiard perde nell’allegorica penombra degli ambienti, depositi contraddittori d’impulsi egoistici ed empiti generosi, ciò che guadagna nell’audacia di stringere dappresso il nucleo oggettivo dell’intreccio per allargare ad arte i confini della sacrosanta fantasia. Gli assilli, i chiarimenti atterriti dal crepitio della sparatoria conclusiva, la trama scevra dalle spire dell’annoso mistero tradiscono l’eccesso di presunzione al servizio d’una tesi, stringi stringi, abbastanza didascalica. La marcia in più di Emilia Pérez, che ripaga dell’arcinota morale della favola riposta nel vezzo calligrafico dell’inattendibile apologia del progresso rispetto all’empia tradizione, consiste nel saper dosare garbo e brutalità, sbuffi atroci e larghi respiri, rapidi scorci e ariose prospettive, adocchiamenti glaciali e sbirciate compassionevoli. Per conferire quindi all’aria sospesa che circola nell’accumulo dei cospicui e divergenti pungoli, certi persino turpi, l’accensione mentale ed eminentemente romantica dell’inarrivabile rapimento filmico. Impenetrabile alle secche dell’enfasi di maniera e della mera ragione.


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