Estate ’85: ombre e luci del cinema di formazione da un romanzo di Aidan Chambers

La qualità maggiore di un regista legittimamente eletto ad autore come François Ozon, in grado di trasfigurare coi suoi film più riusciti, da Swimming pool a Nella casa, chiodi fissi ed echi compositi, può divenire il suo peggior limite? Saper travalicare i generi cinematografici, adattandone le formule ai colpi d’ala del personalissimo carattere d’ingegno creativo, sancito dalla cifra stilistica incline a trarre partito da stilemi in apparenza incompatibili tra loro, merita una lode incondizionata.

Chiudere al contrario il cerchio con Estate ’85, portando sul grande schermo il romanzo Danza sulla mia tomba di Aidan Chambers, lascia piuttosto perplessi. Benché sveli l’interessante identificazione, dal sapore retrò, con l’inquieto protagonista adolescente.

L’ambientazione, che muta segno rispetto all’originaria Southend-on-Sea, in Inghilterra, patria dell’artefice letterario, sintonizza l’idonea geografia emozionale sulla lunghezza d’onda dei nostalgici affreschi d’epoca e delle parabole coming age. Care agli spettatori dai gusti semplici che spesso confondono la densa ed evocativa scrittura per immagini della settima arte con i meri mugugni delle soap-opere. Il velleitario desiderio d’inchiodare così facendo l’interesse tanto delle platee abituate ad anteporre la dinamizzazione degli eventi all’approfondimento introspettivo quanto del pubblico scaltrito, avvezzo a scorgere vari significati in ogni apologo sulla diversità, specie quella sessuale connessa al processo d’empatia stabilito in terza persona da Ozon, tradisce l’impasse dell’infertile, nonché borioso, cherchiobottismo. La voce fuori campo, i discordanti rimandi in filigrana a Un mercoledì da leoni di John Milius e Il talento di Mr. Ripley del compianto Anthony Minghella, l’arcinoto meccanismo della suspense, anziché lasciare col fiato sospeso riuscendo ad accludere l’intrigo del puzzle tutto da scoprire con l’analisi degli stati d’animo connessi all’ermetico ritmo della Costa d’Alabastro, rientrano nell’ordinaria amministrazione. Che piega i motivi d’insicurezza dovuti all’omosessualità repressa a pleonastici coefficienti spettacolari al servizio del classico mélo sull’età verde. Colmo di sviluppi avventurosi. Intessuto di sfondi cartolineschi ed effimeri. Cosparso d’indizi elementari.

Ricondotti alla voluttà di privilegiarvi i toni gravi, le parentesi fiabesche, gli attimi di commozione, quelli di sospensione e immersione nell’incubo. Che getta alla finestra le risorse offerte dapprincipio dal fecondo clima di mistero. Senza il quale l’intimo diario del sedicenne Alexis, martellato dal pensiero della morte, attratto dall’alta densità lessicale dei capolavori letterari e dal senso dell’avventura custodito nei libri di storia, paga dazio alle deleterie punte patetiche. Il passaggio dalla teoria alla prassi, ed ergo dall’introversione all’estroversione, col trasporto affettivo per l’energico giovanotto David Gorman, capace di stendere al tappeto i bulletti ritenuti omofobi, dovrebbe, da copione, impreziosire l’intrinseco sguardo sul mondo, l’iter connotativo, l’egemonia dell’amor vitae sul cupio dissolvi contemplato in precedenza, la dialettica psicologica, i modi pedestri sul piano formale dell’impianto figurativo. Con l’effigie del mare di Le Tréport, della spiaggia, dei rioni poveri giustapposti ai quartieri ricchi, delle piastrelle di ceramica, degli emblematici vicoli, dell’appassionante luna-park d’ascendenza quasi felliniana, dell’interazione d’interni quotidiani ed esterni panteisti, del negozio d’articoli sportivi, gestito dal solare David assieme all’amorevole ma invadente madre, sugli scudi. Invece resta tutto in superficie. Confinato nell’approssimativo miscuglio di fragile ed eccentrico, di fugace e sentimentale, d’ibrido e funerario. L’approdo dell’accattivante venere britannica, giunta in Normandia per perfezionare il francese, e della crisi di rigetto dovuta alla noia di piombo, intenta a prevalere sul precario passatempo, innesca la tematica, assai complessa, del collasso vitale. Ad appannaggio di solito degli artisti in crisi d’ispirazione.

Oltre che dei giovani bisognosi di razionalizzare l’assurdo e lo strazio dell’amore rigettato attraverso gli strumenti della poesia. Dopo gli ingannevoli colpi di gomito della pur scaltra colonna sonora, col flashforward dell’incipit cadenzato dalle modalità esplicative di In between days dei Cure e l’omaggio alla scena clou del cult Il tempo delle mele per mezzo dell’arcinoto singolo Sailing di Rod Stewart, l’insistito ricorso alle tecniche di straniamento dei risaputi apologhi sull’alienazione stenta ad alzare l’asticella. Anzi palesa nei movimenti di macchina a schiaffo da un soggetto all’altro, negli insistiti carrelli all’indietro, nella summa autocitazionistica dei contesti affrontati in passato, sulla scorta di una diseguale soluzione di continuità, lo scarto dell’incastro programmatico. Le ovvie sequenze ad effetto in aula, col professore che spinge Alexis a sconfiggere i demoni privati incentivando il talento da coltivare palmo a palmo, nell’obitorio, dove l’ineluttabilità dell’atroce rigor mortis sovverte l’inganno del travestimento da donna, e nel cimitero, sulle note dell’hit piroettata sillabando l’interrogativo “Can you hear me?”, non hanno nulla d’ineffabile. Di profondamente sentito. D’attinente all’energia semantica dei versi scevri dai fittizi risalti. Mentre lo spontaneo Benjamin Voisin li compensa in parte aderendo all’incosciente irriverenza di David con una mimica conforme agli slanci della narrativa per ragazzi, la recitazione scolastica del tedioso Félix Lefebvre (Alexis) li cementa. Evidenziandone i freni espressivi. Che trascinano i richiami alla spiritualità, all’esperienza contestativa, alla fede decisiva nell’avvenire di Estate ’85 nell’ennesimo, soporifero singhiozzo esistenziale.

 

 

Massimiliano Serriello