Riuscire a connettere i coefficienti spettacolari d’ogni blockbuster, intento ad appagare le attese del pubblico dai gusti semplici che antepone il dinamismo dell’azione alla soporifera contemplazione dell’ardua poesia, insieme alla curve, i ritellinei, gli emblematici dislivelli dei diversi circuiti della Formula Uno richiede la piena padronanza dei movimenti di macchina, delle inquadrature, delle tecniche d’illuminazione per conferire ai contrasti chiaroscurali una sorta di bussola morale. Già chiamata in causa – trasformando l’ipotesi di girare un sequel dell’inobliabile cult movie Top gun del compianto Tony Scott sulla scorta della strategia dell’opportuna di riduzione del rischio d’insuccesso in realtà – nell’avvincente Top gun: Maverick dall’abile ed eclettico regista statunitense Joseph Kosinski.
Il passaggio dalla serializzazione a distanza di trentasei anni, con gli aerei da combattimento supersonico bimotore a getto scalzati dai caccia multiruolo Boeing F/A-18E/F Super Hornet, al tracciato, alle condizioni di gara, alla potenza del motore delle automobili da corsa in F1 – Il film costituisce per Kosinski un’ulteriore sfida colma di suggestioni e d’insidie. Le suggestioni risiedono nella capacità di scrivere con la luce ad appannaggio degli apologhi sull’adrenalina delle corse, che agli occhi del pubblico meno avvertito conferisce una dignità risolutiva all’intero quadro, nell’interazione tra competenze tecniche ed elementi gestionali, al fine di risolvere problemi logistici col piglio manageriale necessario a impedire l’approdo in sala dell’ennesimo colosso dai piedi d’argilla, nella prospettiva di accrescere il processo d’identificazione d’ampie platee tanto col brivido quanto con lo charme dell’alta velocità, nella ricerca profusa a garantire alla messa in scena di ciascun circuito il valore aggiunto della scoperta di qualcosa di nuovo ed ergo d’estremamente coinvolgente.

Le insidie, al contrario, sono comportate dall’elementare efficacia dell’introspezione dei personaggi rispetto al roboante dinamismo dell’azione, dalle vane incursioni nelle simmetrie visive equiparate alla bell’e meglio a quelle psicologiche, nel mero parallelismo dei dislivelli sulle piste coi dislivelli esistenziali, nelle velleità artistiche ed espressive celate dall’impatto della narrazione a tutta birra, nell’effimera impronta autoriale, scalzata dalla necessità produttiva, nei diktat commerciali alieni al concetto di riservatezza. L’incipit, contraddistinto dai match-cut figurativi, che uniscono la furia delle corse in macchina alla furia dell’oceano, dagli ammiccanti cortocircuiti estetizzanti, dalle inquadrature di quinta, dalla fase ex e in itinere delle gare notturne a bordo delle vetture definite prototipi, avvezze agli scontri nei sorpassi simili agli scavalcamenti enfatizzati sempre da Tony Scott nel mondo delle corse Nascar il gioco fisionomico del protagonista, Sonny Hayes, interpretato da Brad Pitt, esibito attraverso la visiera del casco, come in Top gun, non devia dalla convenzione del film destinato agli appassionati di sport. Allergici ai dispendi di fosforo. L’improbabile colpo di coda che mette lo stagionato pilota di prototipi nelle condizioni di riprendere il discorso interrotto nel lontano, quasi preistorico, 1995, grazie all’azzardo dell’ex collega Ruben divenuto proprietario della scuderia APXGP, senza nemmeno un punto in attivo nell’impari sfida alla Red Bull, alla Mercedes e alla Ferrari, non aggiunge certo nulla sul piano dell’intensità elegiaca dell’affresco sportivo imperniato sul coraggio di raccogliere il guanto di sfida del destino cogliendo al contempo il nucleo tematico ed evocativo d’una parabola esistenziale dedita all’avventura. Ma stuzzica lo stesso l’interesse per un prosieguo avvalorato dalla partecipazione di Lewis Hamilton e degli effettivi team idolatrati dai fan. La sospensione dell’incredulità innescata dalla componente del reale sul versante della partecipazione si va inoltre ad appaiare all’assoluta accuratezza riscontrabile nella previsione del comportamento della vettura nel turbinio ipercompetitivo della pista. Nella solerzia degli addetti al controllo che si occupano degli aspetti aerodinamici della monoposto. Nella previsione dell’andamento dell’automobile sul circuito. Nella regolazione dei propulsori. Nei feedback dei piloti. Nel coordinamento del lavoro ingegneristico. La descrizione ampia ed esaustiva della preparazione alla gara, con l’aria di sfida che coinvolge l’anziano ma coriaceo Sonny Hayes e il pilota di belle speranze Joshua “Noah” Pearce pur appartenendo allo stesso team sull’esempio del giocatore di football sul viale del tramonto e dell’astro nascente a corto di carisma in Ogni maledetta Domenica di Oliver Stone, accosta cifre stilistiche diametralmente opposte tra loro.

Da una parte campeggia il carattere d’autenticità in chiave comunque cool, quindi piuttosto distante dalla crudezza oggettiva della verità nuda e cruda riguardo il training cardiovascolare di ciascun pilota, la coordinazione oculo-manuale, le prove per adattarsi al tracciato, i test per elaborare nuove strategie; dall’altra emergono i colpi di gomito e i segni d’ammicco che inchiodano la fantasia di chiunque preferisca nel buio della sala la concitazione adrenalinica, col cuore in gola per lo stato d’attesa, alla riflessione in merito ai punti interrogativi capaci di andare oltre le apparenze. E mettere quindi a nudo le ragioni umanissime, le fragilità, la fioritura dell’ardore giovanile in una corazza logora, l’ansia di riaffermazione, il desiderio di reinventare l’esistenza. La gara nel circuito di Silverstone, all’interno della contea di Northamptonshire in Inghilterra, dopo l’attesa ai nastri di partenza scandita dalla canzone intradiegetica dei Queen, We will rock you, altera il previo carattere d’autenticità col sensazionalismo. Il rito del cambio gomme, con l’onere di trarre linfa pure dai centesimi di secondo concessi per non dare vantaggi agi agguerriti avversari, la padronanza del pedale, del freno e dell’acceleratore in curva e nel rettilineo, l’imperativo di recuperare posizione, di mantenere la posizione, di guadagnare posizione prescindono dalla metodologia di composizione che converte l’isteria figurativa in aura contemplativa. La giustapposizione dei campi lunghi e degli accorti dettagli ravvicinati rivela l’assoluta necessità da parte di Joseph Kosinski, artefice altresì dell’attenta seppur risaputa sceneggiatura insieme allo scaltro Ehren Kruger, d’inserire nel quadro d’insieme prospettive composite. L’implicita forma di manipolazione della realtà connessa invece al vieto sensazionalismo, col vecchio e il giovane che si misurano nei binari d’una schiettezza ruvida ed estremamente diretta, origina una deleteria contraddizione in termini. Riscattata man mano dall’inversione di tendenza ravvisabile nell’idonea egemonia della descrizione particolareggiata dei circuiti e delle pieghe dei caratteri, inaspriti dalla lotta intestina invisa dal lavoro di squadra del team, sull’inopportuna voluttà di suscitare emozioni al cardiopalma. Il climax di F1 – Il film ghermisce la scienza del moto, in relazione sia ai risvolti della trama sia ai progressi compiuti in pista. Anteponendo il carattere di squadra alle bizze caratteriali dovute al desiderio di emergere su tutti. Passando dal sensazionalismo al rapporto tra immagine e immaginazione. Grazie all’ausilio di alcune incalzanti riprese in soggettiva, attraverso lo sguardo concentratissimo del vecchio leone delle corse che morde il freno dapprincipio per sé stesso, in seguito per il gruppo, Kosinski sintonizza gli spettatori scaltriti e le platee grossolane sulla medesima lunghezza d’onda. Esplicitata dal rombo iconico della Formula Uno, dai rumori derivati dai motori V6 turbo-ibridi, dalle varie componenti della power unit, dai carburanti sostenibili.

L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici assicura così un’esperienza immersiva. Il punto è che per un’assicurazione del genere occorre un budget faraonico. Mentre un film con un budget assai risicato tipo La storia di Souleymane diretto da Boris Lojkine immerge il pubblico nelle ingiurie giornaliere patite dal rider del titolo approfondendo il rapporto tra immagini e immaginazione col minimalismo. Ciò nonostante, anche se non rientra nelle potenzialità registica di Kosinski la maestria di conferire alle pedalate d’un clandestino a Parigi uno spessore maggiore ai testacoda in Formula Uno, l’alto tasso di adrenalina cede talora la ribalta a un tipo di coinvolgimento differente. Basato sugli indugi, sulle impuntature, sulla necessità di vederci chiaro nelle faccende in sospeso, per mezzo delle reiterate correzioni di fuoco da un soggetto all’altro, sulla voglia, infine, di rompere il ghiaccio, di stabilire un patto. Suggellato dalla caparbia ed eterea Kate, direttore tecnico in gonnella della scuderia, che la bravissima Kerry Condon incarna con un pathos talmente fulgido ed empatico da valere quasi per conto proprio il prezzo del biglietto. Ad alzare l’asticella provvede in ogni caso la ferma intenzione di Kosinski d’imprimere una connotazione singolare all’Autodromo nazionale di Monza, al tracciato in Nevada e alla pista Yas Marina Circuit ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, dove il cuore pulsante dell’indomito pilota targato Cartagine verrà buttato definitivamente oltre l’ostacolo. Equiparato al conflitto tra ordine naturale delle cose ed elementi civili dei western epici. Mentre Oliver Stone nel rievocare la corsa delle bighe nell’ambito d’uno sport da contatto contraddistinto dai placcaggi e dagli sganciamenti offensivi in Ogni maledetta Domenica precipita nel melodramma di grana grossa, che resta in superficie sotto l’aspetto dell’introspezione, l’accostamento azzardato in filigrana da Kosinski dei cavalli, delle diligenze, della frontiera ai circuiti, ai motori V6 turbo ibridi, alla data scientist contribuisce ad approfondire pensieri, emozioni, motivazioni e contegni vari. Attribuibili anche, se non soprattutto, alla collaborazione e alla sinergia dell’intero team. La morale della favola, che premia il carattere di squadra, resta piuttosto modesta in confronto ai cunicoli esistenziali scandagliati dai guru dell’introspezione. Eppure l’uggia realistica frammista all’isteria visiva, la concitazione unita alla redenzione, la reazione mimica nel momento di massimo trasporto a braccetto con l’accensione ottica della geografia emozionale, coi circuiti delle corse assurte ad attanti espositivi ed evocativi, impreziosiscono l’iterazione dei tormentoni chiamati in causa. Dalla diffidenza alla complicità sancita dal sovraindicato carattere di squadra. Dall’assegnazione dei punti al pilota più veloce alle pause causate dagli infortuni. Dalla brama di risalire la china ai saluti spicci. In barba alla retorica. F1 – Il film si lascia quindi vedere con diletto, col cuore stretto, col pensiero rivolto all’atmosfera reale delle sfide sui circuiti. Kosinski si muove al confine fra la dinamizzazione degli eventi sportivi e la nozione di ricercatezza che oltrepassa l’intrattenimento e il coinvolgimento secondo copione con l’approfondimento della prestazione agonistica al pari dell’irrinunciabile necessità di fermarsi a riflettere prima di ripartire ad alta velocità.
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