Reduce dal copione del mesto biopic Il ragazzo dai pantaloni rosa, incentrato sul racconto post mortem di un labile quindicenne spinto al suicidio dall’improntitudine dei bulli forti coi deboli e deboli coi forti, l’ambizioso ed eclettico sceneggiatore Roberto Proia decide di mutare segno buttando giù l’assunto narrativo della commedia romantica Fatti vedere nella speranza di convertire l’infertile pesantezza d’ogni apologo esistenziale, con l’attività mentale approfondita dalla psicanalisi, in catartica leggerezza.
Una volta preso spunto dalla vita di tutti i giorni, scanditi pure dalla crescente comodità dell’ormai praticatissima terapia online giustapposta agli imbarazzanti rovesci della medaglia, è il richiamo citazionistico ad andare incontro al plot. Smanioso d’inserire l’indiscusso diritto alla fantasia e l’illusione dell’avventura nei canonici batticuori a braccetto con una coscienza di sé scevra dalla noia di piombo dei bla bla pseudo intellettuali.

L’ennesimo ed evocativo tema della maschera da indossare in società per nascondere i nervi scoperti, congiunti al paradosso d’imparare proprio così ad accettarli, trova in Tootsie di Sydney Pollack il nume tutelare per eccellenza. Anche se di primo acchito la vicenda dell’inquieta laureanda Sandra assunta dal sito di psicoterapia FATTIVEDERE.COM che, approfittando di un disguido tecnico, si cela nel profilo di un’anziana professionista allo scopo di spingere il suo ex fidanzato Stefano a svuotare il sacco in merito al ben servito appioppatole in quattro e quattr’otto, dimenticandosi di fornire qualsiasi spiegazione, richiama alla mente più la farsa intelligente Mrs. Doubtfire di Chris Columbus. Tuttavia ad animare la morale della favola provvede la mutuazione nell’arco del racconto dell’inobliabile confessione sciorinata all’indispettita anima gemella dall’attore disoccupato Michael Dorsey deciso a simulare l’appartenenza al gentil sesso pur di ottenere sotto le mentite spoglie dell’interprete Dorothy Michaels la parte dell’amministratrice della clinica nella soap-opera Policlinico Southwest di Tootsie: “Sono stato un uomo migliore con te come donna che con altre donne come uomo”. Ciò nondimeno, al di là delle sapide intuizioni attinte all’estro di Autori con la “a” maiuscola, all’esito conclusivo concorre in maggior misura la scrittura per immagini posta in essere dallo schietto regista autoctono Tiziano Russo. Passato dall’affresco adolescenziale della serie televisiva Skam, in linea con gli stilemi dei teen drama che scandagliano il senso di disagio connesso alla crescita e quello di scoperta dovuto ai nuovi media, all’esplorazione in chiave amena tanto dei risaputi smarrimenti quanto degli indubbi valori legati alla bussola interiore di qualsivoglia persona stanca di nascondere la verità dietro l’ingannevole istinto di conservazione. L’incipit, ritmato dal singolo Natural blues del musicista statunitense Moby, stenta ad affiancare il colpo di gomito del surplus costituito dalle orecchiabili canzoni d’oltreoceano alla deformazione caricaturale delle ammiccanti pellicole al femminile tipo Il diario di Bridget Jones. Pure l’immediato prosieguo contraddistinto dall’ingresso in scena della severa commissione dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, riunita per giudicare l’illecito commesso sul piano deontologico da Serena, ossessionata dall’idea fissa di venir a capo dell’amaro interrogativo rimasto in sospeso, segue la scia dei nani sulle spalle dei giganti.

Rinvenibili nelle battute iniziali di Febbre da cavallo e Donne con le gonne. Col leitmotiv del tribunale sui generis che innesca l’ampio flashback. Toccando i pedali dello spettacolo malincomico che ospita comportamenti burleschi e parentesi sentimentali. L’ottima cura ambientale, sancita in particolare dal poster del guru Sigmund Freud troneggiante nella parete dinanzi alla webcam del computer prima che Serena sfrutti l’abilità di un maldestro investigatore avvezzo comunque ai camuffamenti per occultare nella bautta in lattice conforme ai connotati dell’anziana terapista l’identità ferita nel pieno della crisi, introduce diversivi utili al carattere d’autenticità. Contraddetto però sia dai meri trasalimenti patetici sia dall’intarsio programmatico di passaggi macchiettistici, applauditi dalle masse aliene ai dispendi di materia grigia, ed echi carezzevoli. L’effigie delle scale capitoline percorse in slow motion dall’afflitta Serena mentre le coppiette sparse a macchia di leopardo tubano in letizia, sulle note dell’ennesima canzone made in USA che riempie il film alla stregua d’un chiassoso jukebox, fornisce alle modeste virtù muliebri, ulteriormente svilite dall’insicurezza affettiva, una cornice assai di maniera. Compensata dalla fragranza della spontaneità di tratto. Ravvisabile dapprincipio nella sagacia umoristica di catturare le posture assunte nel sonno da Serena insieme all’amica per la pelle Benedetta. Intenta ad aiutarla infischiandosene di rimanere in asse con la colonna vertebrale durante il sacrosanto riposo dalle pleonastiche elucubrazioni. La ribalta affidata ai bisticci dialettici della “goodbye girl” milanese residente da un decennio nella Capitale con l’imbranato detective riverbera l’effettiva complicità stabilita da Matilde Gioli alias Serena col collega dal piglio clownesco Pierpaolo Spollon nel medical drama per il grande schermo Doc – Nelle tue mani. La complicità, nata impersonando rispettivamente la dottoressa del reparto di medicina interna Giulia Giordano e il giovane specializzando Ric, trascorrendo parecchio tempo gomito a gomito al contrario dei set cinematografici, prosegue così in ruoli diametralmente opposti. In grado di compensare l’imprinting altrimenti scolastico di recitazioni sulla carta brillanti. Prive in pratica di guizzi meritevoli d’encomio. Al pari della prova fornita nei panni di Benedetta da Asia Argento. Degna di nota per l’aderenza sincera ed ergo sentita all’altalena degli stati d’animo dell’ex mangiatrice di uomini in procinto di convolare a nozze benché attanagliata dall’ansia di non poter contare sull’egocentrica Serena.

Lontana di qualche galassia, con tutto ciò, dagli sprazzi di talento necessari ad aguzzare il bisogno di sentire attraverso lo slancio artistico di servirsi della sfera del quotidiano in veste di mezzo conoscitivo dei delicati elementi dell’animo tenuti in cantina. Non bastono a tirarli fuori le parole esplicative di Acido acida dei Prozac+ né l’ovvia interazione tra interni domestici ed esterni esornativi. L’esile spessore del divertissement all’italiana che, pur conservando un apprezzabile garbo, non sembra desistere dall’alternare sequenze riuscite ad altre tirate via cresce considerevolmente in concomitanza della virtù di tenere gli spettatori, compresi quelli restii a seguire intrecci dove latita l’inventiva dei dramedy eletti ad assoluti cult, sulle spine. Merito dell’intreccio. Corretto in corsa. Sulla scorta della prontezza a ricavare accortamente linfa da chicche della levatura di Buttati Bernardo! e La cena dei cretini. Il cosiddetto “tavolo delle merde” nel quale lì per lì Benedetta confina l’instabile Stefano al matrimonio organizzato ai piedi dell’area archeologica della Città Eterna strappa risate genuine. Abbinando al sentimento d’insicurezza del thriller, usato per alzare la soglia d’attenzione persino del pubblico con la puzza sotto il naso, l’incontestabile destrezza, cara ad Alberto Moravia, di trarre partito da tutto senza pagare dazio ad alcuna ossessione. Quando il prevedibile mix d’inganni ed equivoci cede spazio all’inopinata inversione di tendenza lo sguardo in macchina della protagonista, con Rome wasn’t built in a day dei Morcheeba che non a caso modula la palingenesi culminante degli sfondi esornativi in paesaggi riflessivi, il gioco fisionomico di Matilde Gioli risulta finalmente libero dall’istrionica smania d’inarcare le sopracciglia esibendo facete rughe glabellari. La rediviva misura nel conseguire l’idoneità dei ghiribizzi nell’aspetto esteriore delle cose cementa perciò il denso pensiero e l’opportuno sentimento della psicologa capace di vedere chiaro in zona Cesarini nella sfera delle emozioni in subbuglio. Corroborate grazie al linguaggio maturato in autonomia nel secondo tempo con la macchina da presa da Tiziano Russo. Poco ispirato all’inizio dall’ossessione di Serena. Molto motivato, viceversa, nell’epilogo estraneo all’enfasi di circostanza dall’anelito di liberazione. Fatti vedere chiude quindi i battenti in attivo riuscendo ad anteporre all’infeconda sensazione di déjà vu il trasparente vigore di rileggere i classici con la calzante sensibilità d’un franco battitore della sempiterna fabbrica dei sogni.
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