Favolacce: un noir puro diviene un horror spurio

Favolacce è un film che incuriosisce chi non l’ha visto. Anche perché, nell’ambiente della critica cinematografica, sensibile ad allineamenti e dibattiti ovvi, sta sulla bocca di tutti. Specie da quando ha vinto il premio come miglior sceneggiatura alla settantesima edizione del Festival del cinema di Berlino. Gatta ci cova?

Con la loro opera prima, La terra dell’abbastanza, i registi romani Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno vinto il premio Caligari al Noir in Festival. Pure senza sfiorare di sbieco il carattere d’autenticità raggiunto da Claudio Caligari in Amore tossico, riuscendo ad amalgamare il dolore dei veri ragazzi di strada all’estro poetico di Pasolini, La terra dell’abbastanza trascende i limiti del vedutismo: gli stilemi della geografia emozionale, adottati per scandagliare un luogo dove nascere equivale a perdere l’innocenza, vanno in profondità. A uno sguardo superficiale cosa comunica, invece, Favolacce? Che il valore della famiglia, come dato a intendere cinquantacinque anni fa da Bellocchio ne I pugni in tasca, nasconde un disvalore? Che necessita il sacrificio degli elementi malati. Chi sono i sani?

Di certo, da una parte vi sono le favole a lieto fine. Dall’altra le favolacce. Con l’unhappy end. Ci stanno romani, fini ed eruditi. E romanacci. Quartieri belli e quartieracci di periferia. Quartaccio, per mettere un punto, e Vigna Clara. Max Tortora ha trascorso la giovinezza a Corso Francia. Con Vigna Clara a un tiro di schioppo. Resta un attore che non gioca a basket coi puffi: è altissimo; i puffi sono nani; fare canestro sarebbe un gioco da ragazzi. E lui fa le cose sul serio. Lo ha dimostrato nel ruolo del padre talmente trucido e arido ne La terra dell’abbastanza da non riuscire a commemorare in maniera dignitosa l’atroce dipartita del figlio vagabondo. Morto per essere passato, come direbbero gli amanti di Star wars, al lato oscuro. Per colpa della sua ignoranza. Per l’attaccamento alla materia. A ciò che basta agli individui con il cuore nel salvadanaio. La sua risulta con certezza una delle prove recitative più riuscite in tal senso degli ultimi anni.
In Favolacce Max Tortora presta la voce spogliandola dalle forme-bandiere sia del romanesco sia del romanaccio. L’interazione tra immagini di formiche solerti, ghermite dalla macchina da presa con cura formale, ed echi intrinseci lascia perplessi: a differenza di Gigi Proietti, bravo tanto nel ruolo di Mandrake nella commedia Febbre da cavallo quanto nel doppiaggio in italiano di Charlton Heston nei panni del serioso capocomico in Hamlet di Kenneth Branagh, Max Tortora stenta ad appaiare parole vuote e parole piene con lo stesso rigore di accenti e sfumature contenutistiche. Tuttavia, in merito al diario scritto dalla piccola Alessia Placido, che l’emblematico personaggio legge, dopo averlo trovato per caso, penetrando la complessità nascosta dai fatti semplici, non è la storia a contare. Bensì la sottostoria. Ed è il mistero, per i seguaci di Aristarco, ad alimentare la poesia.

I rimandi ad American beauty – con le riunioni a tavola dei genitori di Alessia e del fratello pre-adolescente, Denis, messi in riga mentre gli adulti si comportano da bambini, celando le incertezze dietro false sicurezze – danno il via a una serie d’insistiti déjà-vu (da Toro scatenato di Scorsese – col capofamiglia che, al pari di Jack La Motta, bistratta gli affetti, sgrullandoli tipo termometri, nel momento della paura, per poi cercare compassione con le lacrime di coccodrillo o tirare tutto per aria – ad America oggi di Altman). La storia, piuttosto risaputa quindi, sebbene passi dai giardini delle villette di periferia del Nuovo Mondo ai margini dell’Urbe, col medesimo scenario, ed ergo poca fantasia e zero mistero, è alternata alla sottostoria. Che da copione, ovvero secondo i piani predisposti dalla sceneggiatura premiata in terra tedesca, dovrebbe dare il destro alla poesia. Insita nel mistero. Il mistero è una cosa complicata, perciò? In 8 ½ di Fellini lo era all’inizio. Alla fine ogni cosa appariva chiara. Idem in C’era una volta in America, che chiude il cerchio col sorriso di Sergio Leone trapiantato nel ghigno di De Niro che svela agli spettatori come il tempo non si possa beffare. Ma loro sì. In Favolacce la sottostoria, ravvisabile nelle vicende esibite negli sbalzi temporali, con una troglodita che in seguito alla maternità contesta i versi di Vasco Rossi cantando in modo stonato le parole intonate di una fiacca variante, non dà il destro al mistero. Perché è tutto sinistro, squallido ed evidente. L’infanzia è turbata nella storia e nella sottostoria dalla mancanza di responsabilità degli adulti. Che demoliscono le piscine improvvisate nei falsi giardini dell’Eden, dando la colpa agli zingari invidiosi del lusso, o confidano alla carne della propria carne i progetti concernenti gli ennesimi congressi carnali con amori non pervenuti. La rassegna del luogo comune trae così poca linfa dal ricorso alla tecnica. Giacché attinta alla freddezza dei dettagli. Mai usati al servizio del calore umano.

Aggiungere il gelo dell’intelletto, o delle cose che si pensano, all’aridità dei sentimenti, o delle cose che si sentono, crea l’impasse. Le cose che si dicono, ridotte all’osso dal vano lavoro di sottrazione (Robert Bresson appartiene ad altre galassie), sono sopperite alla bell’e meglio dalle correzioni di fuoco. Incapaci di produrre il mistero e la poesia per ciò che non si vede, ma si sente, nei campi lunghi. I rimandi ai paesaggi western appaiono l’extrema ratio di un regresso chiaro persino al pubblico con la licenza elementare. L’ordine naturale delle cose è invertito dall’iniqua egemonia della materia sullo spirito. E sfocia nella mostruosità. L’assenza del margine d’enigma, connesso alla suspense, diviene noia. Che nemmeno il professor Guidobaldo Maria Riccardelli sbeffeggiato da Fantozzi potrebbe spacciare per arte. I fratelli D’Innocenzo, partendo dalla ricerca della verità interiore congiunta al territorio ad appannaggio del noir, inciampano allora nelle inabili pieghe del giallo e dell’horror. Ed è il finale ad apparire avvolto nel punto interrogativo. Nessun dubbio sulla sottorecitazione di Lino Musella nel ruolo dell’unico buono, scambiato per cattivo nella sottostoria, che batte dieci a zero il gigionesco Elio Germano in quello dell’orribile padre della storia principale: è tutto scontato. Strano che persone intelligenti abbiano apostrofato in passato i fratelli Vanzina in grado, al contrario dei D’Innocenzo in Favolacce, di oltrepassare i luoghi comuni. Mostrando in Amarsi un po’ una favola a lieto fine che scandagliava la lotta di classe senza falci e martelli. Andando in profondità nel chiarire i grandi motivi d’inquietudine e le piccole ragioni di speranza. Perché le favolacce sono preferite alle favole? Perché gli intellettuali prevaricano gli intelligenti? È la paura dei valori e del diritto al merito? Sì: niente mistero.

 

 

Massimiliano Serriello