Figli del sole: il tesoro sotto Teheran

Ritenuto a buon diritto uno degli autori più ispirati ed estrosi del cinema iraniano, in virtù soprattutto della rimarchevole tenuta stilistica esibita nell’affresco antropologico a tinte fiabesche Bārān riuscendo ad appaiare crudezza oggettiva e squarci lirici, l’ormai esperto regista Majid Majidi sembra voler battere sempre sullo stesso chiodo.

Anche la sua ultima fatica, Figli del sole, costeggia infatti i tratti distintivi dei film d’impegno civile autoctoni, imperniati sui patimenti degli esuli afgani lungo gli emblematici vicoli di Teheran, armonizza l’appeal popolaresco dell’avventura con l’approfondimento psicologico caro agli spettatori scaltriti, attratti dal rapporto tra habitat ed esseri umani, e sciorina un’escalation all’insegna dei valori dell’immaginazione.

L’opportuno grado d’intensità connesso al mix di echi neorealisti ed elaborazione fantastica contempla al contempo il clima magico frutto del carattere d’ingegno creativo e lo spettacolo accigliato delle opere di denuncia col tangibile rischio di pagare dazio all’infecondo cerchiobottismo. L’antidoto ideale al riguardo risiede nell’austera semplicità dei semitoni, che precedono l’innesto della geografia emozionale in chiave favolistica, nel forte senso d’identità culturale, aliena ai plagi camuffati da omaggi dagli esterofili a corto d’acume, e, soprattutto, nell’elemento naturalistico. Motore dell’intrinseca egemonia dello spirito sulla materia. Approdo decisivo dell’affascinante scoperta dell’alterità. La caccia al tesoro, sepolto sottoterra, vicino a una scuola intenta a levare dalla strada i preadolescenti cresciuti scambiando i disvalori per valori, richiama alla mente certi cult movie d’oltreoceano contraddistinti dall’immediatezza espressiva, dal rifiuto d’ogni intellettualismo, dalla capacità di creare lo stato d’attesa giusto per impreziosire l’assunto. Di conseguenza la giustapposizione con gli eloquenti silenzi dell’aura ascetica, con la ritualità necessaria ad approfondire i dati sociali ed etnologici e con la sensibilità cromatica intenta a convertire i timbri figurativi in ragguagli introspettivi diviene roba da equilibristi.

Le incongruenze di cui soffre la trama, incentrata in particolare sul desiderio di riscatto del dodicenne Ali, scugnizzo locale con l’animo da capobranco, l’indole delinquenziale, gli scatti ferini e lo sguardo cerbiattesco, emergono sin dall’incipit. Mentre alcune soluzioni tecniche, specie quelle in campo lungo, riempiono l’occhio, oltre ad aggiornare il pubblico sui microcosmi alberganti nell’ermetica città ai piedi dei monti Elburz, mostrando un’interazione tra interni ed esterni perlomeno curiosa, la suspense è ridotta al lumicino. La prevedibilità dei dialoghi, degli ipotetici risvolti narrativi, del bozzettismo pietistico, attinto alla bell’e meglio agli apologhi europei sull’innocenza perduta, svilisce lo zelo della descrizione ambientale. L’impressione è che dietro l’ostentata facciata dell’antiretorica e del timbro peculiare, fedele alla conoscenza intima dell’argomento trattato, si celi la spersonalizzante enfasi di maniera. Che spinge l’involuto Majidi, dimentico dell’operazione mandata ad effetto in precedenza coniugando la tensione etica e l’adrenalina dei thriller al cardiopalma, a prendere spunto, per la prima volta, dai modelli occidentali. Diametralmente opposti rispetto allo stupore poetico che sottrae l’illusione nei miracoli all’inane accumulo di situazioni canoniche. Prive di mistero. Ed ergo d’interesse. La bravura veristica dei ragazzacci capitanati dal palpitante Rouhollah Zamani nel ruolo del sofferto Ali, deciso dapprincipio ad accedere nell’istituto dedicato ai cosiddetti figli del sole per catturare il patrimonio nascosto su sprone del serafico boss di quartiere, non basta a sopperire alla penuria d’autentico pathos, a dispetto dell’ampolloso montaggio alternato, e dell’idoneo assorbimento delle sbandierate motivazioni ideologiche. Di per sé piuttosto barbose.

Il resto del cast, con Javad Ezzati sugli scudi nei panni di un coscienzioso docente che ricava linfa dalla propensione alla lotta di Ali per mandare al tappeto i burocrati indifferenti alla sofferenza altrui, privilegia una recitazione avvezza ad anteporre alla spontaneità i meri vezzi gigioneschi. Tutto ciò che ruota intorno alla tematica in questione, dall’indifferenza degli organi competenti nei confronti dell’apprendimento dei piccoli paria al desiderio di rivalsa innescato dal vil denaro, dalla metamorfosi della cupidigia in affetto e raziocinio, conciliando, una tantum, il cuore col cervello, resta in superficie. I contrasti chiaroscurali, l’immancabile luce alla fine dell’agognato tunnel, le incisive sequenze di massa, specie nei parapiglia inaspriti dalle vibranti proteste contro l’ordine costituito, la sollecitazione morale, il trepido calore sopraggiunto in zona Cesarini hanno, in ultima analisi, le polveri bagnate. L’idoneo tessuto collettivo, anziché andarsi ad amalgamare alla necessità di scavare dentro il proprio ego, destabilizzato dalle rinunce, affranto dalla mancanza di stabili punti di riferimento, corrotto dai vagheggiamenti predatori, si sgretola alla prova del nove. La potente drammaticità, pure metaforica, rimane solo ed esclusivamente sulla carta. L’esito di Figli del sole, con buona pace sia dell’efficace concitazione nelle scene-chiave sia dell’emozionante significazione degli attimi infiniti prima dei confronti culminanti, è perciò assai scontato. Il ripiegamento nei coefficienti spettacolari del cinema d’avventura getta così alla finestra il nobile ed erudito cinema di poesia. D’altronde, chi lascia la strada vecchia per quella nuova …

 

 

Massimiliano Serriello