Recensione: Figlia mia, una tragedia che affonda le radici nel Mito

Il talento di Laura Bispuri costituisce una ventata di speranza all’interno dell’asfittico panorama cinematografico italiano contemporaneo. Dopo aver magnificamente esordito con Vergine giurata, film insignito con tantissimi riconoscimenti, la regista torna ad affrontare la questione della femminilità, stavolta in riferimento a ciò che ne costituisce la caratteristica più significativa: la maternità. Insieme a Francesca Manieri, delinea una relazione a tre, evocando, in un certo senso, quella trinità latente che informa l’essere di qualunque rapporto. Le due sceneggiatrici non si risparmiano, costruendo una storia esemplare, una tragedia che affonda le radici nel Mito, e la campagna sarda, brulla e sacra, fornisce il perfetto scenario per restituire un’atmosfera evanescente, straniante, tramite cui affrancarsi dalla dimensione cronologica e accedere a una ‘durata’, un tempo emotivo, il solo capace di rendere conto dell’eccedenza di un legame che nella sua ancestrale visceralità s’impone come quello per eccellenza.

Non si esiga, è bene avvertire, realismo dalla narrazione della storia messa in scena: sarebbe una prospettiva errata, che non consentirebbe di comprendere fino in fondo la ricchezza di simboli e riferimenti iconografici di cui è intriso Figlia mia. E non si cada neanche nell’equivoco di credere che le due tipologie di donne tratteggiate, Angelica e Tina (le ottime, ancora una volta, Alba Rohrwacher  e Valeria Golino), siano la solita opzione concessa dall’immaginario imperante. È proprio contro di esso che il film si scaglia, attraverso un intenso e sconvolgente rapporto dialettico con cui si tenta di superare taluni anacronistici luoghi comuni, in vista di una femminilità “a venire”, frutto di un movimento sincero, capace di sgombrare il campo da quelle zavorre culturali che, da sempre, impediscono di pensare fino in fondo la peculiarità dell’essere donna.

Bispuri, quindi, architettando un complesso e drammaticissimo rapporto materno a tre, si muove sul campo della rappresentazione, esasperandone volutamente i caratteri e i toni, proprio per agevolare una trasfigurazione che ne consenta il felice superamento. La ridondanza di certe situazioni non può e non deve essere considerata il frutto dell’incapacità di gestire adeguatamente il materiale emotivo maneggiato, piuttosto è vero il contrario, laddove lo scontro mortale tra le due donne protagoniste costituisce la premessa per far collassare tutto ciò che di stantio e mortifero obnubila lo sguardo dello spettatore (in particolare di sesso maschile), il quale, in tal senso, subisce uno shock che lo ridesta da un fatale torpore.

Vittoria (la brava, tenera e commovente Sara Casu) – nel nome un destino – raffigura un nuovo scenario possibile, che deve essere con ostinazione sempre tracciato, poiché il divenire non è un movimento da subire o in balia del quale essere sballottati, quanto, invece, uno spostamento che riformula la topologia simbolica e che convoca incessantemente ciascuno di noi a incarnare quelle indispensabili linee di fuga che disegnano il futuro. Ciò che Figlia mia mette in scena, a partire da suggestioni antichissime e sempre incisive, è proprio l’urgenza di dare un vigoroso inizio ai processi di soggettivazione di domani, all’interno di un’umanità nuova, liberata dai rapporti di forza.

I volti di Angelica e Tina che per un istante si avvicinano fino a confondersi rievocano senz’altro l’indimenticabile Persona di Ingmar Bergman: il viso della madre, nella sua eccedenza, si tramuta, anche stavolta, in schermo su cui scorrono le prime immagini della nostra vita, quelle che determineranno lo sviluppo della personalità di ciascun individuo. In questo senso, Figlia mia acquisisce un altro pregnante significato, ricordando quanto il cinema sia un dispositivo da cui siamo in un certo senso costituiti, qualcosa che è contenuto in noi come capacità d’immaginazione e che, ogni volta, può fornire l’occasione per destarsi e guardare il mondo con occhi nuovi.

Luca Biscontini