Fortuna: la meta della sensibilità e dell’intelligenza nella storia della piccola Loffredo

A sette mesi di distanza dalla presentazione alla Festa del Cinema di Roma 2020, Fortuna approda finalmente nelle sale.

Il film, nonostante l’assoluto diniego esposto senza mezzi termini dai genitori della piccola Fortuna Loffredo, gettata dall’ottavo piano al Rione Parco Verde nella periferia nord di Napoli, non costituisce né una mera spettacolarizzazione dell’atroce dolore né una vanesia summa di esercizi stilistici.

Fotografo: Serena Petricelli

L’esordio dell’ambizioso regista Nicolangelo Gelormini, assistente in passato di Paolo Sorrentino, avvezzo poi tanto all’alacre apprendimento del reale negli asciutti documentari quanto all’ammiccante smalto figurativo dei videoclip e delle opere d’animazione, passa attraverso una rilettura in chiave autoriale del tragico fatto di cronaca. Sbaglia chi a priori ritiene che emerga uno sfoggio estetizzante dell’ennesimo nano sulle spalle dei giganti. Intento a saccheggiare l’ingegno dei suoi numi tutelari per esibire fatui strumenti di fascinazione. Dietro la congerie degli echi e dei controechi posti in essere, con David Lynch nelle vesti dell’intrinseco Maestro Yoda di turno, al posto dell’accidia delle idee prese in prestito, ed ergo promosse a oggetti di vana ammirazione, affiora il senso profondo del viaggio nei sogni. Tutt’altro che un superficiale ripiego dettato dalla voluttà d’impreziosire il fluire delle immagini per mezzo di presuntuosi interludi onirici. Lo dimostra l’incipit appaiando, insieme all’abile carrello all’indietro, all’urticante alterazione sonora, fedele all’arte della complessità cara al guru sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, alla giostra a seggiolini volanti, una fertile vena visionaria scevra dall’impasse del copia e incolla. Dopo la corsa disperata lungo il tunnel del presunto luna-park, trasformato in deposito dell’orrore, il carattere misterioso della trama trae linfa dalla gamma cromatica scelta dall’attenta fotografia e dai timbri atonali conformi ai capolavori di Todd Solondz. Incentrati sull’incomunicabilità in seno alla famiglia.

Fortuna (Cristina Magnotti), chiamata Nancy, manifesta i sintomi dello spaesamento temporale evidenziando nelle toccanti soggettive dal basso l’inesausto sentimento d’incertezza avvertito nei confronti degli adulti. Il contesto sociale, gli scorci di vita quotidiana, la dialettica introspettiva fuori dagli schemi, l’apatica psicologa dell’Asl, Rita, negata al dialogo, cinicamente distratta dalla tastiera del telefonino, oltrepassano di parecchio le deleterie componenti manieristiche dei mélo a corto d’acume. La cupa malinconia che stringe nell’aria, nei modesti appartamenti dell’hinterland partenopeo, nella fredda fortificazione del palazzo dell’Assistenza Sanitaria, nei tediosi tragitti a piedi, nell’evocativa terrazza dove Fortuna alias Nancy gioca con gli amichetti, pagando dazio allo slavato dispotismo dei bulletti di zona, sigilla appieno l’abisso dell’abominevole alienazione. Mentre alcune programmatiche deformazioni prospettiche, al pari dei frivoli cortocircuiti attinti alla bell’e meglio al cult movie Shining, stentano a cogliere nei consueti silenzi, negli indizi sparsi a raggiera, nelle sbirciate furtive, in linea con l’intreccio del genere giallo, l’aura contemplativa della poesia, estranea ai pretenziosi colpi di gomito, la carica fantastica connessa al mutamento di prospettiva alza decisamente il tiro. La ripetizione apparente di kubrickiana memoria, legata in questo caso alle debite ipotesi alternative grazie al sagace punto di convergenza fra nessi intellettuali ed empiti viscerali, trascende l’arroganza dell’artificio istruito. Il tormento interiore, le interpolazioni rispetto al quadro iniziale, le repliche, i leitmotiv, con la nonna dello spacciatore inquadrata perennemente di quinta, convergono nella potenza dell’invisibile.

Fotografo : Serena Petricelli

L’assennata egemonia dell’antiretorica sull’enfatica escalation di paura conferisce al tema dell’innocenza, svilita dagli impulsi libidici dei mostri che albergano nel tran tran giornaliero, i modi stringati ed empatici in grado di tenere la suspense meditabonda lontana dai compiaciuti sussulti del surrealismo. Ravvisabili solo ed esclusivamente nelle sequenze di gruppo simili a quelle allestite dai fratelli D’Innocenzo nel noir metropolitano La terra dell’abbastanza per unire i mesti palpiti dell’estraneità al diletto del festeggiamento collettivo. A dispetto degli infingimenti allegorici, che cercano d’imprimere il moto della vertigine mentale all’emblema della minaccia e all’analisi delle funeste zone d’ombra, col risultato invece di slittare nell’infeconda esplicitazione, l’encomiabile duttilità espressiva supera l’influenza di ogni archetipo. Il contenuto di verità dei valori tecnici si va quindi ad amalgamare alla struttura in due atti delle sfere sensoriali capaci di accrescere in filigrana il processo d’identificazione con l’indomita bimba. Compenetratasi nei panni di una principessa in attesa di tornare nel pianeta d’origine. Valeria Golino e Pina Turco, scambiandosi la parte, assicurano all’amore materno, sostenuto dallo studio ora indolente ora partecipe del comportamento sospetto, una memorabile polivalenza di significati ed emozioni. Ma è la giovanissima Cristina Magnotti ad andare oltre i prevedibili attimi culminanti concepiti dal taglio sincronico e diacronico affacciandosi alla soglia dell’indicibile con una prova ipnotica. Fortuna raggiunge così la meta dell’intelligenza e della sensibilità. Libere, per una volta, dalla divisione antagonista.

 

 

Massimiliano Serriello