France: il rovescio della medaglia dei mass media secondo Bruno Dumont

Fautore del lavoro di sottrazione, fiore all’occhiello dell’illustre Jean Epstein, consapevole che più si toglie al visibile più si aggiunge all’invisibile, l’estroso regista transalpino Bruno Dumont realizza con France un’opera a tutto tondo. Incentrata sulla voluttà di protagonismo, le scaltre distorsioni, il rovescio della medaglia dei mass media.

L’eco degli inobliabili capolavori Quarto potere di Orson Welles, sull’impudente carta stampata, schiava degli scoop, e Quinto potere di Sidney Lumet, sull’arrembante televisione, a caccia d’indici d’ascolto galattici, si va ad amalgamare a una personale disamina dei network. Condizionati dai disvalori scambiati per valori nell’era delle reti digitali.

La virtù di offrire un fulgido punto di vista sull’egemonia della vanità che sfocia nell’incoscienza, pur di creare scalpore attorno alla notizia sprovvista dell’opportuna preparazione culturale e morale, rispetto ai limiti fissati dall’autonomia di giudizio, dettata dall’imprescindibile aletheia, assume una precisa connotazione psicanalitica. Aliena, di solito, alla prerogativa d’afferrare l’essenza delle cose evitando di mettere troppa carne al fuoco. Tuttavia, trattandosi dell’imprevedibile Dumont, abituato a spiazzare gli spettatori avvezzi a convertire l’irrazionalità dell’ingegno creativo in pleonastici canoni cartesiani, scandagliando l’ordine grottesco in Ma loute per poi esporre nell’insolito musical Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc la forza significante dell’amore spirituale attraverso le stonature dell’ascensione celeste, il mutamento di segno risulta lo stesso estraneo ai vani processi di stilizzazione. Sin dall’incipit appare chiaro infatti che la pur suggestiva scrittura per immagini privilegia la polpa dei contenuti, riscontrabili tanto nell’oggettività degli elementi ambientali quanto nella loro sagace metamorfosi allegorica, lasciando ad altri falsi dotti la gelatina dell’incorporea contemplazione funesta. Il senso di caducità insito nella tragedia rifugge quindi da qualunque orpello formale. L’esplicita complicità femminile iniziale, con gli ammiccamenti a distanza tra la giornalista in auge France De Meurs (Léa Seydoux) e l’avveduta assistente Lou (Blanche Gardin), costeggia i dramedy, tipo Dentro la notizia di James L. Brooks, che esibiscono in chiave ora brillante ora caustica le ambizioni, le intese stabilite dietro le quinte, le punture di spillo destinate ai pezzi da novanta. Il peso informativo congiunto al proposito di catturare l’interesse dell’opinione pubblica, anziché allargarle gli orizzonti, cede comunque la ribalta allo status di eroina del tubo catodico. Le imprese nelle vesti d’inviata di guerra, incline a sottrarre spontaneità ai soldati intervistati imbeccandoli sul modo di muoversi e apparire davanti alla telecamera, in funzione del montaggio da assemblare per imprimere ritmo ed efficacia alle inquadrature di una realtà sennò nuda e cruda, beneficiano del talento di far riflettere ironicamente. L’amaro sghignazzo frutto della satira feroce, impreziosita dal gioco fisionomico dell’abile attrice comica Blanche Gardin, che semina feroci battute al vetriolo nell’ambito della fatua fabbrica del consenso costruita a dispetto dell’idonea sensibilità, cede spazio in seguito alla lacerazione generata dalla malasorte.

Mantenere una direzione unitaria, dopo aver mostrato gli artifici avvalsi di soppiatto a sintonizzarsi sulla medesima lunghezza d’onda della gente da casa, al pari del conduttore Gepy Fuxas alias Carlo Verdone in Perdiamoci di vista, non è un’impresa semplice. Dumont ci riesce grazie al prezioso contributo degli alacri scenografi Markus Dicklhuber ed Erwan Le Gal, della poliedrica fotografia di David Chambille, attenta a illuminare le location elette ad attanti narrativi d’una luce che esula dall’ordinario, e, last but not least, dell’incisiva colonna sonora composta dal cantautore Christophe poco prima di coniugare l’esistenza all’imperfetto a causa dell’implacabile Covid-19. Sono proprio gli inserti dell’intensa musica extradiegetica – affiancata all’antiretorica dei suoni catturati sulla base della sapienza documentarista dei ritrattisti introspettivi estranei agli enfatici trapassi di tono – ad alzare il tiro, capitolo per capitolo, all’algido scrupolo dell’esame comportamentistico. Sul versante dello spettacolo beffardo, anche senza lo scoppiettio di frizzi e lazzi della farsa intelligente, le unghiate rivolte alla mancanza d’utilità sociale nella diffusione degli eventi e nell’empia moda dei tempi colgono nel segno. Gli echi espressionisti ravvisabili nell’effigie dell’appartamento-museo dell’influente reporter persuadono invece assai meno dapprincipio. Al contrario degli eloquenti silenzi che mobilitano in filigrana le occhiate tra l’avvenente ed elegante consorte e il marito romanziere. A lungo andare l’impressione di assistere a consorzi domestici dispiegati all’interno quasi di un’astronave riesce anzi ad assorbire i motivi simbolici con la perizia dei palpiti risolti in poesia. Il filo di congiunzione col sentimento di colpa dell’incupita France, fresca pirata della strada ghermita dall’agorà telematica nel passaggio dagli osanna ai crucifige, riverbera lo sgomento dell’infinito e dell’ignoto. Ed è lì che la potenza dell’invisibile, già esibita da Dumont in Hors Satan unendo le suggestioni del cinema horror all’aura contemplativa che racchiude l’incarnazione del Male e l’anelito catartico del Bene, tocca l’acme.

Il bacio negatole dall’architetto straniero, costretto dall’uragano di fuoco imperante nel luogo natio a sbarcare il lunario nelle vesti di traduttore per le croniste d’assalto, la fuga dai flash dei fotografi nel centro benessere austriaco, analogo a quello del visionario di Fellini, lo stupore fiabesco dinanzi alla meraviglia del creato, la passione per il giovane professore di latino, refrattario agli strascichi polemici del diritto di cronaca, cementano il processo d’identificazione con la protagonista. Il caldo rilievo umano dura in ogni caso lo spazio d’un mattino. Quando l’incantesimo s’infrange di nuovo, e la limousine della solerte Lou non offre più nessun riparo, perché ormai il caos alberga dentro di lei, le fredde correlazioni tra interni traditori ed esterni salvifici mostrano la corda. Dumont si fa allora perdonare la rigida involuzione snudando appieno le insidie comportate dal ripercorrere il sentiero dell’informazione all’apice della fama. L’imperdonabile e prevedibile gaffe fuori onda certifica comunque la maggior ispirazione alimentata dalla sospensione panteista in confronto al tagliente sarcasmo. Lo stato d’attesa creato nell’ultima parte, con i vincoli di sangue che esacerbano le ragioni d’insicurezza, risulta privo della potenza evocatrice degli apologhi in possesso pure dei requisiti del thriller canonico. Il paesaggio riflessivo con gli alberi spogli, il quadro desolato, l’autunno in combutta con lo scontento, porta l’acqua al mulino di una tesi banale. Viceversa la rinascita ricondotta al vento, caro a Rossella O’Hara, agli scenari agresti, all’elemento dell’acqua, recupera il terreno perso. Spianando la strada al finale. Col redivivo codice deontologico necessario a inchiodare un mostro alle atroci responsabilità, ma sulle ali di un’inedita delicatezza d’approccio nei riguardi delle fonti sconvolte, l’abito funereo pronto a cedere spazio al ritorno di fiamma e la chiusura del cerchio scandita dai raccordi di montaggio. In sintonia con le note del compianto Christophe. La duttile Léa Seydoux fornisce una prova magnifica – sia nei sorrisi tronfi sia in quelli ingentiliti dalla premura materna – e funzionale all’elegiaco ed eclettico scacchiere di Dumont. France ne certifica la maturazione artistica. Imbrigliando l’ostentata brezza dei kolossal regrediti sennò a ridondanti soap opere. Al servizio della proverbiale etica della messa in scena. Preferita ancora una volta alla vanagloriosa inclinazione inquisitoria.

 

 

Massimiliano Serriello