L’affinità affettiva ed elettiva del misurato Ricky Tognazzi e dell’estroversa consorte Simona Izzo, sia in fase di sceneggiatura ex ante sia in cabina di regìa in itinere, ha spesso dato vita ad alcune opere d’impegno civile, specie negli anni Novanta, degne di nota. Da Ultrà a La scorta.

Sino ad arrivare all’intenso apologo sugli abusi dei cravattari capitolini Vite strozzate.

L’ambizione di alzare poi il tiro con Canone inverso, nel tentativo di congiungere al consueto dinamismo dell’azione il surplus della contemplazione per mezzo dell’azzardata ripartizione dei piani sia drammatici sia temporali, ne ha frenato l’approfondimento sul versante dell’alacre cinema di denuncia. La loro ultima fatica, Francesca e Giovanni – Storia d’amore e di mafia, imperniata sulla figura muliebre ed empatica della moglie del giudice Falcone, morta insieme al marito e agli uomini della scorta nell’attentato terroristico ordito da Cosa Nostra vicino Capaci con un ordigno dalla portata equivalente a 300 kg di tritolo, rappresenta quindi un ritorno a Canossa? Oppure la ricerca stilistica tentata venticinque primavere or sono, attraverso l’interazione tra suspense mozzafiato e pathos ascetico, si riaffaccia ancora per raggiungere oggi, rievocando l’ardire di chi non volle rinunciare all’amore per la paura di saltare in aria, la vetta della polivalenza espressiva ed evocativa sfuggita in passato? Riuscire ad appaiare la sfera privata a quella pubblica è roba d’ordinaria amministrazione rispetto all’incombenza di distinguere la scrittura per immagini sul grande schermo, che ritrae dal 1979 al 1992 la città di Palermo stretta nella morsa dell’impietosa associazione criminale, dall’appiattimento sul piccolo schermo delle fiction. Prive della capacità di frugare nei timbri antropologici ed etnografici, nei disvalori dell’omertà spacciati per i valori del riserbo e dell’irrinunciabile dirittura etica, nella scheggia velenosa incuneata nei vincoli di suolo. L’effigie del porto dove l’alunno prediletto dell’aggraziata ed entusiasta Francesca Morvillo, che mentre studia per il concorso in magistratura insegna al carcere minorile di Palermo, viene tratto in arresto per l’omicidio dell’autocrate padre, stenta ad assumere la valenza dell’attante narrativo in grado tanto di riflettere le emozioni nascoste dalle apparenze quanto di condizionare i modi di reagire all’indefesso malcostume. Il colpo di fulmine invece con Giovanni Falcone, impersonato sulla scorta d’un’appropriata gamma d’indicative sfumature dal bravo Primo Reggiani che svela lo spirito atletico celato dietro il contegno dell’uomo di legge, persuade appieno.

Al pari del prosieguo della laison. Scandita dagli accordi e disaccordi cari a Woody Allen. Nonché dall’armonia rinvigorita dagli assidui confronti innescati dai punti di vista diametralmente opposti sulle misure di sicurezza da contemperare a braccetto del desiderio di proseguire mano nella mano il cammino dell’esistenza nel mirino dei seguaci del perfido Totò Riina. Balza agli occhi che il carattere d’autenticità del clima a tratti disteso a tratti acceso dalle reciproche prese di posizione dei novelli sposi, che dopo i reciproci divorzi dai previi partner si giurano eterno amore in municipio anziché in chiesa, riflette l’approccio propizio pure nel momentaneo disaccordo di Ricky Tognazzi e Simona Izzo. Il trasporto al contrario dell’avvenente ed energica Francesca per i giovani da sottrarre ai tentacoli dell’emblematica ed empia piovra malavitosa appare più programmatico. Giacché sprovvisto della schiettezza dell’ispirazione che permea le dinamiche intimiste delle schermaglie sentimentali. Il fulgido carattere d’autenticità legato alla sospensione dell’incredulità si va inoltre ad amalgamare al carattere troppo sbrigativo connesso alle illustre vittime di mafia (dal capo della Squadra Mobile, Boris Giuliano, al Consigliere presso la corte d’appello Cesare Terranova). Senza mai approfondire sul serio il trauma comportato nel focolare domestico, nella dolcezza degli abbracci, nella tenera ed epidermica complicità. Che, grazie al gioco fisionomico dell’attraente e intelligente Ester Pantano, dallo sguardo ammaliante ed empatico, ingentilisce la densa tastiera d’indugi funesti ed empiti passionali. Il frequente ricorso alla correzione di fuoco dal volto, prima sbiadito, poi rischiarato, di Giovanni a quello di Francesca, e viceversa, cementa il nesso romantico degli stati di coscienza legati alla concomitanza di eventi interiori ed esteriori. La consapevolezza di avere i giorni contati risulta intonata al genere ma non offre particolari spunti per comprendere le radici d’una società malata sin dalle fondamenta. Sull’esempio dell’acume sciorinato da Leonardo Sciascia nel celebre romanzo Il giorno della civetta. La cui forza significante traligna nella superficialità dei segni d’ammicco del richiamo citazionistico edificante ed enfatico.

La descrizione in maniera eloquente ed esemplare dell’amore, in ultima analisi, raggiunge l’acme. Specie quando Francesca taglia i capelli al consorte dopo averlo visto chiacchierare, se non flirtare, con una giornalista francese dai modi seducenti. L’aura di attesa, di rassegnazione, di concitazione, di reazione al pericolo incombente, sempre dietro l’angolo, non possiede invece più la stessa solerzia garantita all’epoca ne La scorta. Il tempo, nei corsi e ricorsi storici che coincidono con le minestre riscaldate, è poco galantuomo. E non basta tenere a distanza gli stereotipi dei thriller dagli umori controversi per afferrare la contrapposizione della cifra dell’amore con quella dell’odio. A dispetto dell’avvolgente fotografia, che agguanta nella provvida mutevolezza cromatica il cambiamento repentino dei trapassi di tono, dall’idillio allo spasimo, dall’indugio alla risoluta decisione di non pagare dazio prima di coniugare la vita all’imperfetto ai motivi d’incertezza, nelle tragiche battute conclusive prende piede una svenevole ridondanza. Che trae partito dall’epilogo del gangster movie Carlito’s way di Brian De Palma nella carrellata in soggettiva delle persone a lei care sulla barella mestamente convertita a capezzale. La smania di estrarre il classico coniglio dal cilindro, per congiungere l’azione omicida, la concitazione dell’attesa e la contemplazione degli affetti, stenta quindi ad appaiare la sicurezza di ritmo all’insicurezza connessa al fiato perennemente sospeso. Francesca e Giovanni – Storia d’amore e di mafia, infatti, nella voluttà di trarre linfa da stilemi diversi per omaggiare il coraggio d’una donna giusta in un mondo ingiusto, anziché aprire i cassetti della memoria pubblica e privata con un supplemento d’efficacia poetica, pesca nell’ovvio. Tralignando l’ambita comunione d’intenti nel poeticismo.


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