Abituato sin dall’esordio, avvenuto con Morte di un matematico napoletano, ad amalgamare accenti di mesta e profonda verità a certe sfumature visionarie, che accrescono con la realtà nascosta, dapprincipio inafferrabile, la natura pedagogica sia delle opere d’impegno civile sia degli affreschi storici, come Noi credevamo imperniato sul controcampo del nostro Risorgimento, conferendo alla capacità di prendere alla gola l’analisi dei caratteri coinvolti un cipiglio critico ed evocativo differente dall’ordinario, l’ormai esperto regista partenopeo Mario Martone punta con l’originale prison movie Fuori a vincere l’agognatissima Palma d’Oro nell’ambito della settantottesima edizione del Festival di Cannes.
Ha le carte in regola per riuscire nell’impresa che equivarrebbe a scalzare la concorrenza di Autori con la “a” maiuscola della levatura di Kleber Mendonça Filho nel thriller O agente segreto?

Sin dall’incipit, con gli scatti in bianco e nero, i rumori di fondo, le correzioni di fuoco, i sommessi paesaggi riflessivi connessi ai piani temporali sovrapposti, che mostrano la scrittrice siciliana trapiantata nella Città Eterna, Goliarda Sapienza, dentro e per l’appunto fuori la Casa circondariale femminile di Rebibbia, balza agli occhi l’egemonia della contemplazione sul dinamismo dell’azione. Nondimeno l’opportuno supporto del lavoro di sottrazione, con l’acume di togliere al visibile per aggiungere all’invisibile, consente al risoluto Martone, ispirato dalla lettura dei libri L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio redatti dall’ingegnosa ma fragile Goliarda Sapienza sulla base dell’esperienza maturata a cominciare dai cinque giorni trascorsi in carcere, di tenere ugualmente col fiato sospeso gli spettatori. Il passaggio repentino dalla flessione a gambe divaricate dinanzi all’algido sguardo delle cellerine alla frustrante ricerca d’un impiego nelle vesti di donna delle pulizie, all’età di cinquantasei anni, pure senza sciorinare le soluzioni impreviste ad appannaggio dei canonici contesti da brividi, riverbera appieno lo stato di urticante tensione della protagonista. A un tiro di schioppo dall’atroce indigenza. Le sprezzature d’umore dell’ex detenuta Roberta al telefono con Goliarda, dispiegate dal sarcasmo del vernacolo capitolino, cementano l’insolito processo d’identificazione del pubblico con l’aura meditabonda. Anziché con le svolte romanzesche e il rapporto di causa ed effetto degli apologhi shocker sull’orrore del dolore perennemente in agguato. L’operazione risulterebbe comunque a dir poco azzardata, rischiando di trascinare persino le platee maggiormente scaltrite, ed ergo ben disposte, nell’impasse della noia di piombo, se la rivoluzione della consecutio temporum non ricavasse linfa dall’ausilio degli alacri match-cut visivi. Che dapprincipio mischiano approcci passati ed empiti presenti per scandire gradatamente l’elezione del sospetto ad affetto nella condizione di costrizione, tra quattro mura, tranne il cortiletto riservato all’ora d’aria, e nella condizione di libertà. Seduta, dopo il tragitto in metropolitana tra la gente comune, nelle sedie del bar Canova vicino Piazza del Popolo con la sarcastica Roberta. Che confessa però di aver pianto calde lacrime di fronte a cotanta bellezza comprendendo di colpo il valore incalcolabile dei vincoli di suolo.

Mentre l’inquadratura delle mani congiunte delle due galeotte nel prendere spunto dalla “parte per il tutto” cara al pionieristico guru sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn non spinge i fruitori a prestare molta attenzione all’intesa muliebre nel buio della sala, giacché prevale una sensazione di scontatezza combinata all’idea attinta al carattere d’ingegno creativo altrui, il ricorso al deep focus sposta l’oggetto dell’interesse sul bisogno di vederci chiaro. Ed espone, così facendo, una sorta di documentario della mente, prolifica e confusa, aguzza e involuta, dell’instabile Goliarda. Impersonata dall’intensa Valeria Golino sulla scorta d’una destrezza mimica capace di comunicare più compiutamente con gli eloquenti silenzi che con le modalità esplicative delle roboanti parole. Affidate sovente all’alta densità lessicale della pretestuosa voice over. La bassa densità lessicale di Roberta, al pari dei modi di dire pane al pane e vino al vino che comunque annullano lo scoglio delle distanze nonché lo spettro dell’attanagliante alienazione, basta ad andare oltre alcune discrepanze sul versante della compattezza formale di Fuori. Lo spessore contenutistico legato alla rievocazione della Roma del 1980, con la lotta armata implicitamente sugli scudi, il contrasto tra le vie del centro e l’effigie degradata dell’hinterland che, pur indulgendo a un’ampollosa gravità di stile incline ad abiurare l’antiretorica del lavoro di sottrazione chiamato precedentemente in causa, permette alla plasticità delle immagini, impreziosite dalla mutevolezza della gamma cromatica ghermita dall’abile fotografia, di riverberare appieno l’interazione tra incanto e disincanto. Frammista, tanto in prassi quanto nello spirito, al concetto di università, non solo del “gabbio”, bensì anche della strada. Afferrata dalla romanziera in cerca di riscatto etico. Intenta ad anteporre in ogni caso la ruvida sincerità delle complici d’ascendenza pasoliniana all’ipocrita cortesia dei salotti letterari. L’impegno morale unito alla fragranza della spontaneità e all’amaro scandaglio dell’impietosa dipendenza dall’eroina, che impedisce a Roberta di sconfiggere i propri demoni privati, si va poi ad amalgamare ai fili fantastici del pedinamento estatico ed elegiaco. Volto a suggellare nel crescendo palmo a palmo del tessuto narrativo l’alchimia delle protagoniste, incuranti del divario generazionale e della differenza di cultura, con l’avventizia profumiera Barbara. Interpretata con sorprendente misura da Elodie.

L’assoluta complicità femminile, suggellata dalla scena della doccia all’interno del pretestuoso negozietto delle amiche per la pelle, inclusa l’instabile commerciante nelle vesti lì per lì della perfetta sconosciuta per Goliarda nell’universo carcerario che richiama alla mente Nella città l’inferno di Renato Castellani, trascende qualsivoglia colpo di gomito sul piano dell’abusato rimando citazionistico. Martone alla cultura postmoderna, che mischia sacro e faceto, privilegia al dunque i consueti cavalli di battaglia. Rinvenibili nell’intersecazione tra brutalità e amabilità, negli episodi minori convertiti in eventi cruciali, nella nevrotica incompletezza a braccetto col crepuscolarismo sentimentale, nella descrizione ossessiva che scalza talvolta quella debitamente allusiva, nell’atmosfera iterativa dell’horror spurio. La sequenza del furto dei gioielli compiuto a casa degli abitanti della Roma bene, svelti a coglierla in flagrante attraverso il riverbero dello specchio in camera da letto, paga dazio all’eccessivo bisogno di far vibrare la corda dell’inquietudine sottile svelando l’arcano in merito alla ragione della prigionia per mezzo d’un esercizio stilistico ai limiti dell’autocompiacimento. Nel finale, invece, prende piede una prodiga palingenesi elegiaca ed empatica. Che tramuta la componente manieristica unita alla geografia emozionale nell’utopia che concilia arte e verità. La vertigine del tempo e l’inversione di tendenza. La magia impenetrabile dell’amor vitae eletta ad antidoto del cupio dissolvi. Matilda De Angelis nel ruolo di Roberta fornisce una performance da pura affissione. L’attrice bolognese incarna la tossicomane idealista che stempera nello sferzante ed epidermico romanesco le punture di spillo dell’esistenza sullo slancio d’una prodigiosa psicotecnica. In linea con la noia esagitata delle attese, con la granulosa maestosità dei polmoni verdi, giustapposti alle colate di cemento della periferia, con l’autodistruzione, innescata dalla droga, e con la conquista poetica. Sancita dalla rinascita. Che rende Fuori di Mario Martone una vera chicca. In grado di esplorare i cunicoli dello smarrimento ed esibire al meglio, nella luce alla fine del tunnel e degli incastri temporali, la forza significante dell’ammenda sui generis. Soppesata all’acme dell’università della strada.
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