Un album in cui ogni elemento si fonde con il suo contrario: l’organico e il digitale, il sacro e il sensuale, l’istinto e la forma

Free Hands è il luogo in cui convivono gli opposti. Non si tratta di una semplice contaminazione stilistica, ma di una vera filosofia musicale: il caos come matrice, l’ibridazione come destino. I Melty Groove esplorano un’estetica del frammento che però non rinuncia alla forma. Ogni brano è un corpo composito, fatto di segmenti che si incastrano per intuizione più che per calcolo.

La band mostra grande maturità nel gestire questi materiali: la voce non è mai sovraccarica, ma incide. La sezione ritmica si muove con una libertà controllata, mentre le tastiere lavorano come tessuto connettivo, armonico e timbrico. Anche le scelte più ardite — un break gospel, un bridge quasi psichedelico, un’interpolazione mediterranea — sembrano naturali, perché fondate su un’urgenza espressiva e non sulla volontà di stupire.

E così, in questo paradosso sonoro, prende forma una verità: siamo tutti frammenti che cercano un senso. E forse la musica, più della logica, può restituircelo.

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