Futura: un musical metropolitano a ritmo di jazz

Assorbita l’influenza dei capolavori neorealisti incentrati sull’interazione tra habitat ed esseri umani nel palpitante film d’esordio Cloro, in grado di conferire ai territori eletti a location lo spessore evocativo degli attanti diegetici, l’ambizioso regista capitolino Lamberto Sanfelice subisce con Futura il fascino del cinema sperimentale. Che adotta tecniche stranianti per inchiodare l’attenzione del pubblico attraverso un’intelaiatura ritmica fuori dall’ordinario.

Questa volta a riflettere il turbinio degli stati d’animo è, oltre alla ricerca dell’alterità individuata nello scandaglio piuttosto inedito di Milano, la poliedrica colonna sonora. Le suggestioni jazz giustapposte ad alcuni incisivi sottogeneri, individuabili nella metrica della progressive house, trasportano gli spettatori in un’atmosfera alle soglie del mondo dei sogni. Ed è appunto un incubo a occhi aperti quello che attanaglia il tassista francese Louis mentre guida per le vie meno conosciute del capoluogo lombardo.

Il processo d’identificazione con la vicenda, contraddistinta dallo spaccio di droga in combutta con l’inquieta trans Lucìa, ex cantante lirica tormentata dal cambio d’identità sessuale ancora sconosciuto al figlioletto rimasto in Cile, implica l’innesto di passaggi narrativi lineari. Contraddetti dall’aria sospesa. Affidata alle scelte antinarrative, oniriche e informali. L’eversione dello schema tradizionale classico tradisce quindi l’imperizia di dare al contrario un colpo alla botte del carattere d’ingegno creativo e l’altro al cerchio dell’immediatezza espressiva. La virtù di scrivere con la luce, garantita dall’alacre ed erudita fotografia di Luca Bigazzi, sembra sopperire all’intoppo. Imprimendo al racconto, specie nelle pieghe programmatiche, aliene alla presenza provocatoria degli emblematici scompensi e all’incanto illusorio del loro appianamento, una gamma cromatica dapprincipio ricca di stimoli. Non abbastanza però per convertire a lungo andare l’inane segno d’ammicco figurativo in fulgido ragguaglio introspettivo. Che estrae conigli dal cilindro ed esce dall’impasse di privilegiare ai nastri di partenza il sottofondo allegorico dell’aura contemplativa per poi inserire in parallelo, strada facendo, cascami mélo legati, secondo copione, all’estetica da videoclip. L’elemento dell’acqua, in precedenza fondamentale, risulta adesso formalistico. Se non ridondante. La baracca sul Naviglio, il bagno purificatore, insieme alla figlioletta Anita, e l’insito ordine naturale delle cose, assunto ad antidoto contro l’atroce egemonia della materia sullo spirito, tralignano i canoni basilari dell’assurdo poetico in aridi colpi di gomito.

L’effigie dell’automobile avvezza ai percorsi raccapriccianti di dantesca memoria, l’abitacolo, il garage, le misere stanzette, gli arcinoti corridoi, attinti alla bell’e meglio ai rilievi iconografici ed elegiaci di Nicolas Winding Refn, non sono certo frutto d’una fantasia estranea al copia e incolla. Lo stesso vale per le vorticose sequenze in discoteca, per i risaputi riverberi dello specchietto retrovisore, per il saccente sfoggio di ombre esistenziali, bagliori di speranza ed empiti di cambiamento. L’emulazione malcelata pregiudica così pure gli stilemi della geografia emozionale. Ridotti a meri ripieghi. Incapaci di ricavare dalle inquadrature di profilo nelle palazzine periferiche, ricalcate sul modello dello stilista visivo Michael Mann in Heat – La sfida, uno sguardo dinamico ed empatico su qualcosa di ben diverso dai consueti sfondi. Il passaggio dall’antiretorica di Cloro all’enfasi intenta ad anteporre l’accumulo alla sottrazione comporta infatti lo sconfinamento nel decorativismo, negli accordi al pianoforte compiuti in chiave diegetica dalla talentuosa ma introversa Alice, nei disaccordi extradiegetici, che in teoria dovrebbero mettere persino più i brividi degli efferati risvolti, nelle ottave, nell’improvvisazione, negli assoli. La cui crescente dinamica appare disgiunta dalla nota intima. Vessata dall’empia legge della criminalità.

L’impronta antropologica ed etnologica ivi connessa risente delle tinte fosche tirate via in maniera approssimativa. Anziché corroborarle rintracciando nei luoghi e negli spazi le sfumature per trascendere il ricorso ad accenti tagliati con l’accetta del mestierante privo d’estro. Senza l’opportuna polivalenza di significati, che permette all’odissea del protagonista d’incunearsi nei giri armonici inseriti dalla tensione artistica tradotta in musica dopo le stonature rinvenibili nel logoro legame d’indizi funesti ed echi esplicativi, la meta della sensibilità cede il passo allo stucchevole, nonché deleterio, sensibilismo. Servivano inoltre interpreti di spicco, amalgamati con cognizione di causa, per svelare il crepitare delle palpitazioni, affidate alle cadenze dell’intera orchestra, dietro le scontate maschere d’indifferenza. Lo scialo d’indoli segrete, definite dall’uso bandistico degli strumenti a fiato, invece non spicca mai volo. La performance scolastica del cast, ad eccezione di Daniela Vega (Lucìa), che disperde comunque gli eloquenti silenzi mandati a effetto in Una donna fantastica di Sebastián Lelio, non riesce mai a comunicare i nessi, le allusioni, gli attacchi veloci, gli intervalli esegetici realizzati dalla scala minore ascendente. Fortuna, confidando nei break ascetici, negli avvii, nei fraseggi delle composite sonorità chiamate a raccolta, trascina il sapore dell’apologo sui cambi di scansione sanciti dall’amore per la musica e la famiglia nella solita solfa delle operette piene di buoni propositi. Ma a corto d’idee originali.

 

 

Massimiliano Serriello