L’emblematica ricerca del tempo perduto, cara all’illustre romanziere transalpino Marcel Proust, e la geografia emozionale, intesa nella sua accezione più ampia ed esaustiva, restano gli irrinunciabili punti di riferimento, ai fini dello scandaglio poetico in merito al processo d’occidentalizzazione imperante nella Cina degli ultimi vent’anni a discapito dei valori ereditati dalla tradizione, per il rigoroso ed esperto regista Jia Zhangke. Proveniente dall’entroterra dello Shanxi. Che affonda le radici nello Stato di Jin nel cosiddetto periodo delle primavere e degli autunni.
La scelta di anteporre sin dall’incipit di Generazione romantica la forza significante delle folate di vento, il cui sibilo allude alla palingenesi in corso, al pari dei movimenti di macchina da destra a sinistra, in senso quindi contrario a quelli conformi alla sensazione di quiete aliena ai brividi trasmessi dai thriller spuri, rispetto all’ammiccante dimensione tanto noir quanto gangsteristica, ravvisabile ne I figli del fiume giallo, potrebbe apparire frutto dell’improntitudine dell’oltranzismo stilistico. Ostile agli ammiccanti colpi di gomito nei confronti del pubblico dai gusti semplici che scongiurano il rischio di trascinarli nell’impasse d’una noia di piombo.

Ad alleggerire invece l’evidente ed eccessivo timbro documentaristico della prima parte, caratterizzata altresì dall’audace valenza antinarrativa, provvede la sottile e prodiga ironia che serpeggia nei locali dove la working class autoctona si ritrova per cantare a squarciagola. A costo di prendere qualche stecca. Emerge così, insieme alla spontaneità di tratto dei karaoke, delle danze improvvisate, degli ideali di solidarietà connessi secondo copione ai brani musicali, l’attitudine dell’autore con la “a” maiuscola ad assemblare e converitire immagini analoghe per un verso, composite per l’altro. Sulla scorta dell’ausilio risolutivo fornitogli tanto dalla capacità di scrivere con la luce dell’alacre fotografia quanto dall’abile montaggio. Che segue, sotto alcuni aspetti, lo stesso modus operandi dell’avvolgente ed empatico dramedy familiare statunitense Boyhood di Richard Linklater. Anche se a Jia Zhangke interessa fondamentalmente riassumere, un po’ come Nanni Moretti con Il sole dell’avvenire, la matrice ideologica ed espressiva dei suoi previi film, assai emblematici riguardo il tema in questione, da Still life ad Al di là delle montagne, per passare dalle speranze per un futuro luminoso, cadenzato dalle hit del momento, allo spaesamento dinanzi al grigiore dovuto al regresso scambiato per progresso. L’evoluzione della gamma cromatica, rispetto alle sbiadite sequenze amatoriali di repertorio, coincide con l’involuzione dal punto di vista dei vincoli di suolo. Sviliti dal fenomeno dell’industrializzazione con l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. La giustapposizione tra gli alienanti dettagli ravvicinati, che fungono da mesto ed ermetico presagio, e il ripiego nei campi lunghi, per cogliere step by step i mutamenti apportati dall’adesione al nuovo che avanza, risulta meno persuasiva dell’interazione dei volti granitici delle statue degli eroi popolari con le facce sbigottite dei delusi paria. Decisi comunque a non schiodare dal luogo natìo. Anziché unirsi ai «fluttuanti» operai intenzionati a divenire imprenditori. Attratti dalle aree produttive sparse nell’intera Nazione allora in fermento. Jia Zhangke accosta la suddetta fluttuazione, destinata a pagare dazio alle promesse mancate ai danni soprattutto delle imprese manufatturiere, oggi pleonastiche, al sentore introduttivo dell’oscillazione. Che finisce per risucchiare in un vortice la fiducia nel domani. Destinata a infrangersi contro l’empio divisorio eretto dai discussi diktat commerciali alla stregua delle onde sulle rocce.

L’operazione mandata ad effetto, nonostante l’indubbia padronanza tecnica, sa troppo di programmatico e rischia perciò di sconfessare, col surplus dell’enfasi di maniera, l’efficace gioco di contrasti supportato dalle luci e dalle ombre dell’aura contemplativa. Quando l’ormai logora vicenda collettiva congiunta sia alla crudezza oggettiva sia all’abbinamento allegorico cede la ribalta alla storia intima, ed ergo romantica, della coppia che scoppia, perché lui, Bin, abbandona lei, Qiao Qiao, per agguantare la balena bianca della fortuna legata alla modernizzazione, lontana dall’arretrata città fondata durante la Dinastia Han, lasciandola letteralmente priva di parole, l’asticella si alza. Il viaggio compiuto da Qiao Qiao allo scopo di raggiungere l’ambizioso e insensibile Bin, che richiama alla mente il tragitto intrapreso dalla promessa sposa Molly in Grand tour di Miguel Gomes per un motivo analogo, porta a galla le composite frecce all’arco del rinfrancato Zhangke: l’eclettica composizione dell’inquadratura, la tranche-de-vie verista congiunta all’illusione dell’avventura, la densa correlazione tra habitat ed esseri umani conforme ai timbri antropologici ed etnografici necessari ad afferrare lo stravolgimento in atto dei paesaggi riflessivi, le didascalie dei capolavori del periodo muto scelte per distinguere l’immusonita globe-trotter dall’infeconda logorrea insita nelle banalità scintillanti della propaganda, l’effigie dei palazzi moderni a un tiro di schioppo dal degrado delle vecchie abitazioni abbandonate, il furto della proprietà intellettuale incanalato nell’aleatoria gentilezza d’un robot che cita gli aforismi motivazionali di sante e romanzieri al pari degli scontati bigliettini del Bacio Perugina. La lobotomizzazione paventata da Zhangke ne Il tocco del peccato si va dunque ad appaiare alla crisi del rapporto con l’amaro contesto. Attinto a pieni mani ad Antonioni. Specie in Deserto rosso. Il rischio di veleggiare sulla superficie delle idee prese in prestito, invece di approfondire motu proprio lo stallo morale ed esistenziale individuato nella demonizzazione degli spazi sviliti dalla globalizzazione, è scongiurato dall’empatica destrezza mimica della bravissima Zhao Tao, collaboratrice storica di Zhangke, nel ruolo della delusa ma dignitosa Qiao Qiao. Fedele agli orientamenti smarriti al contrario da Bin.

L’egemonia, seppur transitoria, dello spettacolo minore della recitazione sullo spettacolo maggiore della regìa reiterativa, che affida l’illustrazione dei concetti ravvisabili nell’adempimento delle responsabilità nei confronti della società e nello smarrimento dei princìpi etici alla correzione di fuoco per vederci chiaro nell’opaca cornice cagionata anche dalla proliferazione dei vacui parchi di divertimento predominanti in The World, contribuisce ad aggirare la prevedibilità di chi, gira gira, batte sempre sullo stesso chiodo. Dai centri abitati colme di storia da tramandare ai posteri distrutti per costruire la Diga delle Tre Gole sullo Yangtze al mondo rurale che scampa al crepuscolo nel suburbio della Madrepatria. L’insieme dei comportamenti guida da seguire per difendere il Paese dalla spersonalizzazione innescata dal vil denaro – zhong 忠 (lealtà), xin 信 (fiducia), rén 仁 (benevolenza), yi 义 (rettitudine), xiao 孝 (devozione), hui 惠 (gentilezza), rang 让 (condiscendenza), jing 敬 (rispetto) – ricava parecchia linfa dalle pieghe umoristiche dell’itinerario di Qiao Qiao. Che scoraggia i malintenzionati incontrati strada facendo, mostrandogli lo storditore elettrico, e getta la maschera, o per meglio dire la mascherina, allorché le attanaglianti regole per la protezione dal Covid danno il colpo di grazia alla chimera della comunicazione. Mentre il convenzionale ritratto panteistico dell’ordine naturale delle cose affidato alle acque confluite nel letto dei bacini iconografici, a differenza dell’imbelle marinaio soggiogato ai capricci dell’ambiguo padrone del vapore di turno, s’inceppa nella mera metafora, estranea al vero quotidiano, attinto ai maestri del nostro neorealismo, l’uso straniante ed eminentemente significativo della camera a mano per i carrelli in avanti rimedia al momento propizio alla palla al piede del tedioso schematismo. La ribellione all’oblio auspicata da Zhangke rischierebbe in ogni caso di tralignare nell’esile spessore attribuibile all’insistita analisi dei mesti stati d’animo riverberati dall’ambiente circostante, schiavo altresì della speculazione edilizia, se gli eloquenti silenzi dell’indimenticabile protagonista, che in zona Cesarini replica alle lacrime di coccodrillo del partner allacciandogli la scarpa sulla falsariga di Nicole (Scarlett Johansson) con Charlie (Adam Driver) in Storia di un matrimonio dell’arguto ed erudito collega newyorchese Noah Baumbach, non conferissero alla slogatura delle relazioni sentimentali il vigore dell’astrazione unitamente alla concreta accettazione delle reciproche imperfezioni. La maratona notturna culminante, alla quale si aggrega la donna avversa alle minestre riscaldate, cementa l’implicita ricerca dell’alterità nella trasformazione della resa figurativa in pregnanza evocativa. Generazione romantica razionalizza così l’assurdo, accordato alla folle velleità di fermare lo scorrere degli eventi, raggiungendo le vette del cinema di parabola per mezzo dell’attento corollario degli incontri, degli scontri, dei contrasti, dell’ennesima struttura a incastro che riesce ad avvicendare la stantia illusione tradita alla preziosa lezione riposta nella salda connessione alle radici sempiterne.
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