Genesis 2.0: i cacciatori di mammuth colti dal vivo

Unite le forze per conferire al documentario Genesis 2.0 l’appeal degli apologhi su Madre Natura che riescono ad amalgamare l’asciutto carattere d’autenticità all’incanto della geografia emozionale, il talentuoso regista svizzero Christian Frei e l’alacre collega russo Maxim Arbugaev vanno subito al sodo.

Il soliloquio del prologo, frammisto all’energica componente espressiva della colonna sonora, fa capire che musica tira sin dall’incipit. La verità nuda e cruda non passa neanche per l’anticamera del cervello a Frei. Autore nel 2001 del bellissimo War photographer. Arbugaev, da par suo, avvezzo già con Arctic great. Part One. The veneration of the spirit of fire a trarre linfa dalla capacità di convertire i timbri figurativi in riverberi introspettivi, infonde alla gamma cromatica un estro estraneo al mero scrupolo cronachistico.

Nondimeno l’ambizioso proposito di scrivere con la luce, cogliendo dal vivo l’intenso tran tran giornaliero dei cacciatori di mammuth in Siberia, stenta ad applicare il prezioso lascito del pioneristico guru statunitense Robert J. Flaherty. Cresciuto in quei luoghi, che conosce come le proprie tasche, Arbugaev cerca nella cura dei particolari e nei pedinamenti d’ascendenza zavattiniana lungo i ruscelli una fertile alternativa alle suggestioni poetiche ed esotiche insite nella scoperta dell’alterità. Il contenuto umano, necessario a garantire un ritratto penetrante alla caccia all’avorio col settaccio dei resti preistorici, risente dell’assenza della cosiddetta giusta distanza. La scarsa tensione formale, dovuta al coinvolgimento dell’autore nato sulla costa dell’Oceano Artico, che stenta a stilizzare qualcosa che gli sta così a cuore, è sopperita dalla mano ben più esperta di Frei. Il dialogo a distanza attraverso la posta elettronica avvia lo schematico contrappunto del ritrovo a Boston dei ricercatori di biologia interessati a razionalizzare l’assurdo. Studiando cioè per filo e per segno, con la forza della ragione, i risultati raggiunti dai siberiani. Alieni alle risorse del progresso.

L’innesto della voce fuori campo, intenta a porre in risalto l’impegno profuso dalla scienza, vorrebbe assicurare un’analisi al contempo sensibile e misurata degli stati d’animo relativi alla fase dell’apprendimento strategico. Le zone di freddezza dovute all’impostazione ex ante delle prospettive psicologiche e antropologiche pregiudicano tuttavia l’adeguata spontaneità di tratto. Il nucleo concettuale toccato con le riprese decise a ghermire l’entusiasmo collettivo per la visita del celebre ingegnere molecolare George Church, eletto a divo dai giovani accademici, scambia le ostentazioni di stima per ottimismo. L’inane timbro superficiale impresso al ritratto delle passioni, riposte negli echi della folla abituata ai corridoi mondani ma anche nell’habitat incolto dove il richiamo dell’avventura scompone le teorie dei ninnoli da salotto e dei topi di biblioteca, ricava poco profitto dalle tecniche di straniamento. L’espediente della mappa geografica vagheggiata con trasporto e timore, i rilievi pittorici in lontananza, le inquadrature ravvicinate negli accampamenti di fortuna, in attesa dell’occasione propizia, dovrebbero trascendere l’abituale rigidezza delle opere attestative. Invece, a furia d’insistere da una parte sulla fenomenologia esistenziale avulsa agli esami comportamentistici e dall’altra sulla presunta etica della messa in scena, che riduce all’osso l’approfondimento della coscienza individuale, la farfalla non esce dal bozzolo.

Il fascino della nuova specie affiora solo ed esclusivamente a grandi linee. La compostezza di Frei, che raggiunge in aereo l’appassionato collega, cedendo il passo al sogno di vincere l’ardua sfida nell’arcipelago contrario agli esperimenti contemplati dalle rigorose discipline, tradisce l’impasse del disincanto malcelato. Arbugaev, viceversa, paga dazio alla smania di apporre all’andamento riflessivo dei falsi allarmi e delle inesauste speranze un’impronta spiccatamente autoreferenziale. Dettata quindi dall’esercizio di stile. Volto a svelare più il magnetismo della terra natìa ché le radici dello spazio attivo nel quale alberga l’emblematica replica alla fabbrica dei cloni di Seoul. Le cui modalità di presenza appaiano troppo generiche per lasciare una traccia importante. A dispetto degli efficaci match-cut visivi predisposti dall’attento montaggio alternato, per mettere a confronto ambienti agli antipodi, la maturità professionale non basta ad appaiare i cruciali interrogativi con la solennizzazione dell’epica peripezia. I rispettivi punti di vista, frutto dell’osservazione cerebrale e della contemplazione sentimentale, soffrono d’incongruenze palesi. Risolte qua e là, nella struttura frammentaria di Genesis 2.0, dalla forza significante dei suoni intradiegetici. Con lo strepito delle onde del mare che decretano, a dispetto dell’insistita musica extradiegetica e del pleonastico dialogo interiore, il congedo dell’agire dei personaggi dinanzi alla furia degli elementi.

 

 

Massimiliano Serriello