Georgetown: la prima regia cinematografica di Christoph Waltz

Un film incentrato sulla ricerca del tempo perduto, cara sin dal titolo della sua omonima opera magna all’ingegnoso ed erudito scrittore e saggista francese Marcel Proust, risulta degno di nota? Al di là dei facili giri di parola, caldeggiati anche dal giocherellone Quentin Tarantino per mezzo dei persistenti richiami citazionistici, assistere alla visione di Georgetown – on demand dal 19 Maggio 2020 – è una perdita di tempo per gli spettatori più scaltriti?

A quelli più ingenui, giacché intenti ad anteporre il carattere di presa immediata alla densità espressionistica dell’aura contemplativa, la prima regia cinematografica dell’ammiccante Christoph Waltz, attore-feticcio dell’inesauribile Tarantino, vincitore dell’Oscar come “best actor in a supporting role” per Bastardi senza gloria e Django unchained, sembrerà se non altro potabile. Per dirla alla maniera del nipote adottivo di Rocky Balboa in Creed – Nato per combattere. In virtù dello sguardo furbetto dell’interprete cosmopolita, austriaco con cittadinanza ebrea capace di parlare fluentemente almeno tante lingue quante il compianto Papa Giovanni Paolo II. Eppure il debutto nelle vesti di autore tout court da parte del gregario di lusso, autopromossosi protagonista assoluto, costeggia diversi luoghi comuni che non sarebbero passati per l’anticamera del cervello ad Alfred Hitchcock e a Sergio Leone. L’approdo di Georgetown nei maggiori canali on demand pone in risalto l’insito impasse? È un’opera minore che curiosamente, ma nemmeno troppo, va per la maggiore?

Di certo il ricorso sin dallo incipit ai movimenti innaturali da destra verso sinistra, anziché in direzione contraria come prevede l’evocazione pacifica affidata alla tecnica cinematografica, appare da manuale. Specie ai fini del classico giallo. Al contrario i vari rimandi in filigrana a Delitto in pieno sole di René Clément, Il mistero Von Bulow di Barbet Schroeder e Gosford Park di Robert Altman, che disseminano l’intera trama, invertono la tendenza del giocondo Maestro: a differenza del pensiero post moderno, impreziosito dal furbetto Quentin ponendo sul medesimo piano gli spunti espressivi attinti a Robert Aldrich ed Enzo Girolami Castellari, le mere ricerche di stile lasciano davvero il tempo che trovano. Delitti in pieno sole, inoltre, non ve ne sono. L’omicidio commesso ai danni della ricca novantenne interpretata con la solita classe recitativa da Vanessa Redgrave rientra negli stilemi del genere giallo. L’unico margine d’enigma appare però strada facendo la ragione per la quale Christoph Waltz nel dirigere sé stesso alterni un gigionismo ai limiti del ridicolo involontario e una sottorecitazione alla Dirk Bogarde. Per certi versi sembra di constatare l’involuzione in tal senso del pur mirabile Al Pacino che ha contraddetto con la prova enormemente sopra le righe in Scarface, nei panni del “parolacciaro” Tony Montana, l’impeccabile misura impiegata per imprimere ulteriore forza significante agli ombrosi ed eloquenti silenzi di Michael Corleone nel cult Il padrino.

L’interazione tra semitoni ed eccessi compiaciuti, con cui spendere il proprio estro d’istrione nato, appare per di più priva dell’opportuna tensione psicologica. Ed è alquanto improbabile, sempre per portare un esempio gradito ai cinefili di provata fede, che il garbato e malinconico maggiordomo James Stevens dell’intimistico apologo Quel che resta del giorno divenga durante un terzo grado mefistofelico, impenetrabile ed estremamente arguto tipo il dottor Hannibal Lecter nell’incomparabile thriller Il silenzio degli innocenti. Christophe Waltz, bravissimo nelle vesti di supporto ora dell’avvenente Brad Pitt, quantunque camuffato alla Vito Corleone, ora dell’immusonito Jamie Foxx, in chiave western, non arriva onestamente nemmeno alla caviglia di Anthony Hopkins. Né dell’Al Pacino più innamorato dei sovratoni. Definire vibrazioni armoniche le convenzionali scelte espressive connesse alle cadenze della colonna sonora, che stenta ad abbracciare la svariata tastiera dei diversi stati d’animo, è a dir poco inopportuno. La geografia emozionale rimane un miraggio: l’effigie dell’evocativo centro abitato cede spazio ai modi risaputi del cinema da camera. L’egemonia degli interni, dove il secondo marito dell’influente vecchietta predispone cenette succulenti per conquistare le simpatie dell’alta società, tradisce un plagio piuttosto evidente. Ed ergo impossibile da spacciare per un sincero ed educato omaggio.

La brutta copia di Liam Neeson in Schindler’s list – La lista di Schindler, mentre ricava il beneplacito dei papaveri dell’esercito nazionalsocialista, prima di capire di aver fatto affari con gente senza scrupoli, è un’autorete malcelata. L’ormai inflazionata rivoluzione della consecutio temporum svela l’arcano, di per sé scontato, a parte la velleitaria simpatia per le divise militari, con la legione straniera nel cuore, che avrebbe potuto essere sfruttata meglio. Persa quell’occasione, sul versante grottesco/visionario, gradito agli amanti del cinema surrealista, che ha in Luis Buñuel l’indiscusso capofila, Georgetown si dissolve come neve al sole. Finendo col trascinare nella noia finanche le platee di bocca buona. Deluse pure le aspettative meno superbe, lontane dai territori della sagacia parodistica o dell’ossessione fantastica, la missione epifanica dell’assunto strappa sorrisi di dileggio. Trasformando in componenti della Gialappa’s Band persino gli spettatori alieni alle pose canzonatorie. La rivelazione, attinente al termine epifania, arriva senza l’ausilio dell’idoneo intrigo. Il gusto intellettuale, pago delle citazioni sparse a raggiera, prende per misteriose le banalità scintillanti. L’onesto montaggio rimedia alla prevedibilità dei soliti imprevisti. Il connubio in Georgetown della commedia sofisticata con l’acre indagine di costume, vanificata dalle grossolane incongruenze che si barcamenano in superficie, non aiuta comunque affatto ad approfondire il vano colpo d’occhio dell’ambientazione. È meglio, in ultima istanza, tornare a ricoprire con lampante merito il ruolo del miglior attore non protagonista. A ciascuno il suo. Sciascia docet.

 

 

Massimiliano Serriello