Ghiaccio: il debutto di Fabrizio Moro sul ring del cinema

Nei cinema solo il 7, 8 e 9 Febbraio 2022, Ghiaccio è il primo film diretto da Fabrizio Moro, scritto e diretto in coppia con Alessio De Leonardis. Periodo di fuoco per il cantautore romano, già in gara nella settantaduesima edizione del Festival della Canzone italiana di Sanremo con il brano Sei tu, le cui note risuonano tra i fotogrammi del film.

La mole di impegni non spaventa Fabrizio Moro. Le gambe non gli tremano e il suo debutto dietro la macchina da presa è solido. Tenacia e fermezza sono riscontrabili a 360° nella sua prima opera cinematografica.

La storia è ambientata nel 1999. Siamo al Quarticciolo, periferia est di Roma. Giorgio (Giacomo Ferrara) è un giovane pugile promettente. Vive da solo con la madre poiché orfano di un padre vigliaccamente assassinato dalla malavita locale. Il suo allenatore è Massimo (Vinicio Marchioni), con un passato nella boxe, che vede nel ragazzo il potenziale campione che lui non è riuscito a diventare. L’occasione della vita per Giorgio è dietro l’angolo: un solo match di pugilato lo separa dall’accesso al professionismo. Ma i fantasmi del passato, che ancora albergano tra le strade del quartiere, sono i suoi veri ostacoli. Temi, linguaggio e fotografia strizzano l’occhio a lavori a cui ci stiamo abituando: Romanzo criminale, SuburraLo chiamavano Jeeg Robot e così via. Le inquadrature della coppia registica restano fedeli a se stesse e scivolano lineari tra un interno ammuffito, una palestra dismessa, una fredda discoteca e i vicoli insicuri della periferia malavitosa. Moro ci porta in una borgata abbandonata al degrado, abitata da residenti un po’ disillusi, un po’ remissivi. Ma è anche la borgata dei cortili che si trasformano in campi di calcio, coi bambini che tentano (tra gli spari) di emulare le gesta dei numeri 10 della Serie A nonostante abbigliamenti arrangiati e (dannate!) felpe con lettere scucite.

È la borgata dei profumi dei sughi che dalle finestre aperte si riversano sui marciapiedi spaccati. È la borgata dei soprannomi, fastidiosi pseudonimi che segnano le famiglie e superano le generazioni, lasciando un peso anche sulle spalle dei figli costretti ad ereditarli. Tra questi contorni, Giorgio si muove con difficoltà, impantanato nella droga e schiavo di una pigrizia figlia delle colpe che attribuisce, anche per comodità, al padre morto prematuramente, reo di avergli lasciato in dote debiti e una pessima nomea familiare. Ma se la vita ci dice che la figura paterna non è legata al solo sangue, in Ghiaccio ce lo dimostra Massimo, uomo che ha fallito nello sport ma che ha vinto nella famiglia. Per Giorgio non è solo un allenatore. Più va avanti il film e più la sua figura subisce una metamorfosi: da preparatore atletico ad amico, da amico a padre a tutti gli effetti. La scrittura è decisa e profonda. È una sceneggiatura che punta ai contenuti e probabilmente attinge a esperienze e atmosfere che hanno segnato la gioventù dello stesso Moro. C’è equilibrio nella distribuzione ma, nel realismo (abbastanza) credibile della vita di borgata, risulta magari eccessiva la tanta “saggezza” che caratterizza tutti i personaggi.

E le musiche? Interesse inevitabile, vista l’esperienza pluridecennale nella musica del neo cineasta. Qui non ci sono sorprese. Le sonorità di Moro si riversano chiare sull’intera colonna sonora del film, tanto puntuali nei momenti più intimi da risultare anticipabili. Armonie, bpm e arrangiamenti hanno il sapore delle classiche ballate del cantautore, in cui il pianoforte predomina e suscita malinconia. Sono sottofondi a cui mancano soltanto le linee melodiche tipiche di Moro e le parole. Il lato più rock se lo tiene da parte e lo lascia sfogare solo nelle scene d’azione della preparazione atletica (che vagamente ricorda gli allenamenti agli antipodi di Rocky Balboa e Ivan Drago in Rocky IV) e del combattimento finale (in cui va menzionato il bel piano sequenza che segue gli scambi dei due pugili per gli interi primi due round, con un buon montaggio sonoro). Ghiaccio fa del riscatto il suo perno. È un appello alla resistenza, al non mollare, per dimostrare che i soprannomi non sempre sono condanne: a volte possono diventare essi stessi degli stimoli per cercare di gettarseli alle spalle, dimostrando che la mela può anche cadere molto lontano dall’albero. Il riscatto si ottiene a colpi di guantoni (sul ring) e di scelte (fuori). Anche se il vero colpo (di scena) arriva alla fine, con un imprevedibile ed emozionante evento drammatico che picchia lo spettatore in pieno stomaco, mettendolo KO. Giunti all’ultimo gong si va ai punti e Fabrizio Moro ne esce piacevolmente vincitore a sorpresa: il ghiaccio se l’è guadagnato”.

 

 

Alessandro Bonanni