Gianluca Del Chicca: un romanzo di istinto e di vita

Parliamo di un romanzo breve, forse andrebbe etichettato come racconto lungo. Parliamo dell’attitudine che si ha di sedere lontano dal proprio vissuto per poterlo guardare per intero o, quantomeno, per guardarne la parte che più ci interessa. Ma guardarla per intero, anche la semplice parte. E se a tutto questo si aggiunge poi quel piglio adolescenziale che fa della vita un pellegrinaggio incosciente e sbarazzino ecco che si raggiunge il cocktail di ingredienti che sono alla base di questo lavoro letterario di Gianluca Del Chicca dal titolo “Quel dolorino in basso a sinistra”. La prefazione di Dario Ballantini è solo una delle tante chicche che troviamo tra queste 133 pagine. E di sicuro lo sguardo di insieme non è cosa comune anche perché dal suo insieme, Del Chicca, risale a ritroso lasciando pendere un appiglio che restituisca soluzione alla continuità. Dunque uno spaccato della sua vita, tra finzione e verità, un breve frammento di un intero vissuto… forse quel frammento che, tra spiritualità ed estetica, rappresenta una grande trasformazione. Lettura scorrevole, snella e, come dicevo, dal gusto adolescenziale pubblicata da Bibliotheka e che noi oggi vi lasciamo raccontare dalle sue stesse parole. Un racconto lungo fatto romanzo che narra senza fronzoli la vita di chi alla vita ha solo chiesto la possibilità di far accadere cose.

Noi parliamo molto di estetica. Estetica effimera ma non solo. Estetica spirituale poi, quella che muove le emozioni. In un romanzo come il tuo pare quasi che il concetto di estetica sia un corredo superfluo e, in alcuni tratti, inesistente. Pare che abbia davvero poca importanza ai fini del romanzo e della storia. Pare che la spiritualità del vissuto sia il vero ed unico motore del romanzo… non trovi?
Questo possiamo dire sia un romanzo essenziale, dove lascio da parte fronzoli ed inutili orpelli e vado diretto al punto, mi soffermo sulla descrizione di qualche paesaggio o personaggio, ma l’unica estetica che mi interessa è quella del ritmo, del flusso della trama, del tempo che incalza, tutto il resto è per cosi dire scarno e superfluo.
La semplicità del linguaggio è alla base di tutto, di effimero non ci sono paroloni né elucubrazioni di difficile portata, arrivare al punto è quello che mi interessava, l’unica spiritualità che può emergere è quella interiore, dettata non da qualche dottrina ma solo dal vissuto del protagonista, che in effetti è il vero ed unico motore del romanzo.

Ed in effetti, la lettura di questo libro ha pochi scossoni, e la cosa non infastidisce nè annoia. Segno di averne completa padronanza. Un romanzo che nell’estetica di com’è somiglia al tuo vissuto quotidiano? In altre parole: scrivi come mangi?
Quello che si legge nel libro non si discosta assolutamente da me né dall’approccio a quelle che sono le mie vicende quotidiane, d’altra parte questo è pur sempre un romanzo tendenzialmente autobiografico. Non ci sono colpi di scena particolari o scossoni è vero, ho puntato sulla fluidità delle storie e sul lasciare in sospeso il messaggio che volevo far arrivare e quello che volevo esprimere; ovviamente c’è un po’ di me stesso in ogni pagina ma è solo alla fine che si chiude il cerchio e si arrivano a comprendere emozioni e stati d’animo. Scrivo come mangio? Direi proprio di si, non uso artifizi e l’edulcorare la realtà non fa parte di me, sono piuttosto diretto ma con una giusta dose di diplomazia, a volte si potrebbe pure capovolgere il tutto e dire che mangio come scrivo!

E a proposito di estetica abbiamo notato come i nomi delle persone sono assai poco importanti. Poco importanti per te, per il tuo modo di essere o per l’estetica letteraria?
Personalmente ho sempre avuto molta difficoltà nel ricordarmi i nomi delle persone conosciute da poco, mentre la fisionomia è un qualcosa che mi rimane impressa da subito, e chissà probabilmente ho trasmesso questa mia caratteristica al romanzo. Possiamo quindi affermare che i nomi sono in effetti poco importanti nell’economia della storia, d’altra parte non ci sono co-protagonisti o personaggi ricorrenti, al massimo lo stesso personaggio può essere ritrovato in due capitoli, anche se poi emerge che una persona, che non viene mai nominata tra l’altro, svolge il ruolo di motore principale di tutta la storia. Non è una questione di estetica letteraria quindi, bensì è dovuto in parte al mio modo di essere ma soprattutto al tipo di storia e intreccio che caratterizzano il romanzo.

Davvero interessante il racconto della storia procedendo a ritroso. Dove nasce questa idea?
È nata strada facendo, non c’era un piano iniziale che prevedeva questo svolgimento. Molti anni prima che decidessi e sentissi l’esigenza di buttare giù questo romanzo, avevo già scritto quello che è poi diventato l’ultimo capitolo del libro, e che al tempo avevo intitolato “Cinque minuti” e doveva rimanere solo un racconto; avevo poi scritto, più o meno nello stesso periodo, una poesia intitolata “Scarpe rosse” che ha poi ispirato il penultimo capitolo del libro.
Partendo da queste basi mi sono poi davvero ritrovato a Londra in una taverna, la vigilia di Natale, da poco trasferitomi e senza nessuno con cui passare il Natale. Quel giorno presi il mio computer e andai alla Pembury Tavern che era vicino alla casa in cui vivevo al tempo, scelsi il tavolo più isolato che trovai e mi sedetti, era accanto ad una finestra. Attorno il clima era di festa, io aprii il computer e cominciai a guardare fuori da quella finestra chiedendomi come fossi capitato lì, ed iniziai in quel momento la stesura di ciò che sarebbe diventato “Quel dolorino in basso a sinistra”, con una trama a ritroso nel tempo perché la narrazione proprio da quella taverna prese inizio ed io non potevo che andare indietro nel tempo…

Esiste una linea di confine tra la verità e la narrazione? Leggendo romanzi come questo è una delle prime cose che sono sempre portato a chiedermi.
Nel mio caso la linea è molto sottile, a volte si spezza e nella narrazione è racchiusa tutta la verità, altre volte prevale l’aspetto romanzesco. È difficile dare delle percentuali, cosa che tra l’altro in diversi mi hanno chiesto, comunque certamente la verità supera la finzione, e non potrebbe essere altrimenti in un romanzo scritto a tappe con la struttura a ritroso, partendo da situazioni vere e da emozioni vissute in prima persona.
Poi c’è ovviamente dell’altro, a volte devi rendere la storia più interessante ed ecco che ti sforzi in maniera razionale per produrre un qualcosa di diverso e più accattivante non collegato a quella che fu la realtà delle cose; a volte invece sei semplicemente lì con i tasti del computer davanti e hai uno spunto inaspettato, un qualcosa di più naturale succede e cominci a picchiettare quei tasti ferocemente perchè ti ha preso un’ispirazione improvvisa, non sono accadimenti biografici ed inizia la narrazione romanzata.

La morale qual è: dare sempre retta ai propri istinti? Oppure occorre saper far di conto con un piano strategico davanti agli occhi?
Non penso la via percorribile possa essere una sola, personalmente credo sia necessario porsi di fronte a qualsiasi situazione senza pregiudizi né prevenzioni, con la mente sgombra; probabilmente mettersi davanti agli eventi o alle decisioni da prendere in maniera razionale con un piano strategico davanti agli occhi è però la via più sicura, non necessariamente la migliore, ma quella almeno che potrebbe darti più garanzie e tranquillità.
Partendo dal presupposto che non mi sento in grado di dare consigli o indicazioni morali, propenderei per avere un piano strategico più o meno ben definito davanti, lasciando poi, a seconda delle situazioni, prevalere razionalità o istinto, ma lo dice una persona che spesso e volentieri si lascia trasportare dal flusso degli eventi e crede nel destino!