Gli anni belli: il 1994 in chiave ironica e nostalgica

Nel 1994 l’appassionato ed eclettico regista romano d’origine spagnola Lorenzo d’Amico De Carvalho aveva circa tredici anni. E quindi si affacciava all’adolescenza. Con i motivi d’insicurezza, la consapevolezza di non essere ancora né carne né pesce, il desiderio comunque di dire la propria e le cose ancora da scoprire che ne conseguono.

Tra la fine d’Agosto e i primi d’Ottobre del 2020 ha girato la commedia all’italiana Gli anni belli, esordendo in tal modo al cinema con un’opera cosiddetta di finzione. Ed è l’anno tanto mirabilis quanto horribilis, a secondo dei punti di vista, al centro di quest’opera prima paradossalmente, o quasi, realizzata da un regista esperto. Se non altro in ambito teatrale e in campo documentaristico.

Lorenzo d’Amico De Carvalho, tuttavia, è soprattutto uno sceneggiatore e un cinefilo. A fare la spia alla professione e al diletto, equiparabile alla magnifica ossessione, di trascorrere gli anni più belli nel buio della sala per poi esibire ed emulare sotto il sole d’estate le suggestioni imperanti sia sul grande sia sul piccolo schermo non provvede il background allegato alla scheda del regista esordiente ed esperto al tempo stesso bensì la scrittura per immagini del film in questione. La sceneggiatura non si limita a fornire una traccia alla scrittura per immagini mandata ad effetto in itinere. La fase ex ante del copione rivela infatti la voglia di non lasciare nulla al caso e di mettere molta carne al fuoco. Lo scopo sembra quello di mostrare l’intensa leggerezza dell’età verde attraverso il filtro del richiamo citazionistico caro a Quentin Tarantino. Che divenne per l’appunto nel 1994 il regista simbolo dei rimandi postmoderni all’interno del testo filmico vincendo il 23 Maggio la Palma d’Oro con Pulp fiction al termine della quarantasettesima edizione del Festival di Cannes. Nel medesimo anno veniva presentato fuori concorso dal 1º Settembre al 12 Settembre nell’ambito della cinquantunesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia Il postino. Diretto da Michael Radford. E interpretato dal compianto Massimo Troisi, dal bravissimo Phillipe Noiret, dall’avvenente Maria Grazia Cucinotta. Divenuta con questo film, che ormai si può definire storico, un’icona di stampo internazionale. La Cucinotta, decisa ad interpretare personaggi adatti al tempo che passa, ne Gli anni belli incarna la madre premurosa, saggia, comprensiva, a differenza del marito, più intellettuale e ballerino dinanzi alle moine della sfascia famiglie di turno piena di charme ma a corto di morale. Lo spettacolo della recitazione è in funzione dello spettacolo garantito dal richiamo citazionistico? Si vanno entrambi ad appaiare alla tenuta stilistica ed evocativa del regista? Il regista è eleggibile ad Autore con la “A” maiuscola? Le risposte, come accade in questi casi, le fornisce l’emblematica scrittura per immagini concepita nel momento in un certo senso della verità dal simpatico e ambizioso Lorenzo d’Amico De Carvalho.

La vera protagonista è una ragazza di sedici anni fissata con il livellamento egualitario, avversa al diritto all’autorità, all’egemonia dello spirito sulla materia rivendicata dalla destra storica, intenta ad anteporre ai legami di suolo e di sangue la passione per le rivendicazioni sociali. Questo tipo di passione l’ha ereditata dal padre. Un professore di greco, avvezzo all’alta densità lessicale della lingua scritta, che da una parte apprezza l’affinità elettiva individuata nella disciplina di fazione; dall’altra deplora il fatto che la figlia, seppur intelligente, con lo spirito della capobanda, sia stata rimandata proprio in greco. La studentessa, al seguito dei genitori in un villaggio vacanze a dir poco scombinato ed ergo emblematico secondo il regista dei punti di vista diametralmente opposti di reazionari e progressisti, ha carattere da vendere: s’impone dinanzi a un gruppo di ragazzi e ragazze più grandi; si guadagna la leadership ma mente sulla sua età. La voglia di essere grande spinge una ragazza sincera d’indole sulla strada della menzogna. Gli anni belli imbocca così due strade, quella dei figli, dai sedici ai diciassette anni circa, ed ergo a un passo dall’approdo all’età adulta, e quella dei genitori. Quando le strade s’incrociano la capacità di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente tipica della Commedia all’italiana funziona appieno. Quando il sentimento della nostalgia e dell’ennesima ricerca del tempo perduto, cara a Sergio Leone, sopraggiunge, oltre a cozzare contro il cinismo bonario della commedia all’italiana tramandata di generazione in generazione, emergono dei buchi di sceneggiatura. È come se il copione di ferro cedesse il passo a un copione di gomma. Con i riempitivi aggiunti rappresentati dai richiami citazionistici disseminati a ogni piè sospinto – da Rusty il selvaggio ad Apocalypse now, da Gente comune alle serie tv Happy daysBeverly Hills 90210 (il cult di quegli anni belli) – che fanno simpatia. Però veleggiano sulla superficie. Ad andare in profondità sono, al contrario, le prove di alcuni interpreti. Ciò dimostra che l’elezione ad Autore con la “a” maiuscola può ancora attendere: lo spettacolo della recitazione prevale sulle soluzioni espressive della regia.

L’aura contemplativa nemmeno affiora. I siparietti caricaturali abbondano. Insieme alla sensazione di déjà-vu che rompe le uova nel paniere alla smania di acquisire le patenti di nobiltà ereditate dal teatro. Che al cinema ha un occhio troppo pesante e stona con l’intensa leggerezza eletta ad antidoto contro la tendenza a prendere troppo sul serio le prese di posizione pro e contro. Le cose migliori sul versante registico riguardano comunque il mix tra crudezza oggettiva ed elaborazione culturale tipica del documentario. La finzione, il bozzettismo vernacolare, la lingua in gioco sull’esempio di Totò, con i segnali discorsivi frammisti ai paroloni e alle citazioni dei classici pagano dazio ai luoghi comuni. Il luogo eletto a location invece coglie nel segno. Peccato perciò che la geografia emozionale non abbia un ruolo di spicco: avrebbe potuto fungere da collante nella vicenda dei ragazzi di ieri, coi maggiorenni focosi ma teneri, le maggiorenni diverse ed empatiche, e degli adulti eredi, sotto molto aspetti, di Dirty dancing – Balli proibiti. Con buona pace dei richiami spesso di sicuro effetto Gli anni belli non arriva neanche alla caviglia dei film citati. E anche un paio di esordi di quest’anno, Querido Fidel di Viviana Calò e Mondocane di Alessandro Celli, presentano credenziali migliori sotto l’aspetto dell’originalità. Il regista atteso alla prova di maturità al cinema sopperisce all’impasse delle idee prese in prestito con la direzione del cast che costeggia Voglia di tenerezza e Fiori d’acciaio nel ritratto di madre fornito dalla Cucinotta. Sulla scorta della supercoscienza del personaggio e dell’attrice. Consapevole che i corsi e ricorsi storici servono a comprendere i passaggi d’età dei ragazzi messi al mondo con l’amore. Bisognosi di comprensione. La forza dei legami di sangue e di suolo, insieme ai valori ereditati dalla tradizione, alla fine convince di più dell’apologo progressista. Romana Maggiora Vergano intensa, risoluta, tenera nel ruolo della minorenne capitolina che va per la maggiore pure lontano dalla Capitale è la nota più lieta dell’intero ambaradan. Sulla scorta del carattere d’autenticità stabilito con la Cucinotta. Il carattere misterioso della poesia latita; l’umanità, al di là dei colpi di gomito generazionali, affiora senz’alcuna esitazione.

 

 

Massimiliano Serriello