Gli uomini d’oro: i soliti (ig)noti

Il titolo Gli uomini d’oro non può fare a meno di richiamare alla memoria 7 uomini d’oro e Il grande colpo dei 7 uomini d’oro di Marco Vicario, incentrati su una banda di ladri impegnata, ovviamente, ad organizzare furti.

Del resto, basato sullo stesso reale fatto di cronaca avvenuto a Torino da cui Gianluca Maria Tavarelli ha derivato nel 2000 Qui non è il paradiso, anche il secondo lungometraggio diretto dal salernitano classe 1986 Vincenzo Alfieri – autore della gradevole commedia supereroistica I peggiori – vede al proprio centro una combriccola interessata a mettere le mani su un gustoso bottino.

Bottino rappresentato dal furgone portavalori guidato ogni giorno dall’impiegato postale Luigi, dalle fattezze di Giampaolo Morelli, appassionato di lusso e belle donne che nel 1996 vede svanire improvvisamente il proprio sogno di godere della baby pensione, decidendo, di conseguenza, di passare dalla parte del crimine.

A supportarlo nell’impresa sono sia il suo migliore amico Luciano, ex postino insoddisfatto incarnato da Giuseppe Ragone, che l’ambiguo collega Alvise, ovvero Fabio De Luigi, padre di famiglia sposato con Bruna alias Susy Laude e affetto da problemi cardiaci.

Un trio cui si aggiunge anche Edoardo Leo nei panni di un ex pugile detto “Lupo”, legato sia alla bella Gina che al couturier d’alta moda (ma dalla insospettabile doppia vita) Boutique, rispettivamente interpretati da Mariela Garriga e Gianmarco Tognazzi.

Un campionario di moderni “soliti ignoti” che, però, finiscono per non riuscire in alcun modo a risultare simpatici, nel corso di circa un’ora e cinquanta di visione narrata a capitoli attraverso una struttura tutt’altro che classica, mirata ad alternare di continuo presente e passato.

Una struttura che sembra soltanto infiacchire lo svolgimento generale, sebbene sprazzi di dinamismo vengano tentati attraverso momenti dal look internazionale basati in particolar modo su frenetici passaggi di montaggio e utilizzo di hit dance anni Novanta – tra le quali Rhythm is a dancer degli Snap – all’interno della colonna sonora.

E, a cominciare dalle locandine di Grosso guaio a Chinatown, Cocktail e L’ultima sfida di Bruce Lee affisse su una parete, non mancano neppure omaggi cinefili al genere in fotogrammi, ma, se l’intenzione dichiarata de Gli uomini d’oro era quella di proporre un noir in salsa heist movie, per quale motivo scegliere un cast di pur validi attori noti al grande pubblico, però, soprattutto per la commedia?

Un errore dettato dai misteri della moderna produzione cinematografica tricolore portata ad utilizzare sempre le stesse facce (compresa Matilde Gioli in un piccolo ruolo) e che porta, di conseguenza, lo spettatore pagante a cercare la risata che si aspetta leggendo i nomi sul poster.

Quella risata che, purtroppo, non arriva mai nell’avanzare di una difficilmente coinvolgente operazione destinata solo a ricordarci la maniera in cui, in Italia, la Settima arte funzionava decisamente meglio quando Alberto Sordi, Vittorio Gassman Nino Manfredi provvedevano a regalare comicità, lasciando giustamente a Maurizio Merli, Luc Merenda e Franco Gasparri il compito di occuparsi della delinquenza sullo schermo.

 

 

Francesco Lomuscio