Go home – A casa loro: il giorno dei morti… di fame

Tra mani alzate a mo’ di saluto nostalgico, cartelli riportanti “Italia agli italiani” e romani “de Roma” che rivendicano davanti alle camere di ripresa della tv il proprio desiderio di riappropriazione di un suolo italiano invaso da stranieri, apre in un veritiero clima tricolore d’inizio XXI secolo dal sapore quasi apocalittico Go home – a casa loro, secondo lungometraggio diretto dalla Luna Gualano che si occupò nel 2014 del thriller Psychomentary.

Sapore reso ancor più apocalittico dal momento in cui, nel corso di una manifestazione finalizzata all’impedimento dell’apertura di un nuovo centro di accoglienza, si scatena improvvisamente un’epidemia che trasforma tutti i comuni mortali in zombi affamati di carne umana, costringendo il giovane di estrema destra Enrico alias Antonio Bannò a nascondersi proprio nel posto, in mezzo a immigrati e persone di colore.

Infatti, a differenza della precedente fatica registica, girata sfruttando la tecnica del POV e guardando ai torture porn proto-Saw, la oltre ora e venti di visione in questione abbraccia il filone dei morti viventi nel chiaro tentativo di fornire una denuncia di taglio socio-politico immersa nell’attualità dello stivale più famoso del globo.

Del resto, facendo qualche passo indietro nel tempo, se, tra gli anni Trenta e Quaranta, gli zombi nell’ambito della Settima arte erano quasi sempre ne(g)ri resi tali e schiavizzati tramite il Voodoo da qualche figura di taglio capitalista, a partire dal 1968 la musica è cambiata, in quanto La notte dei morti viventi di George A. Romero ha provveduto ad introdurre il primo eroe dai connotati di afroamericano in una vicenda del genere.

Ed è guardando proprio all’aspetto allegorico dei film del cineasta che poi firmò Zombi che la Gualano mette in piedi l’insieme, concentrato in maniera principale sullo sviluppo dei diversi personaggi circondati dalle mura del fatiscente rifugio, tra provviste destinate a scarseggiare minuto dopo minuto e il protagonista preso a stringere progressivamente un legame d’amicizia con il piccolo Alì interpretato da Pape Momar Diop.

Perché, con lo splatter più suggerito che mostrato, i cadaveri a passeggio, in realtà, fanno soltanto da contorno a quella che è una tipica situazione d’assedio mirata a favorire la lenta concretizzazione di un microcosmo in cui, davanti alla morte imminente, amici e nemici si mescolano in nome della lotta per la sopravvivenza.

Quindi, siamo più dalle parti de La ragazza che sapeva troppo di Colm McCarthy che da quelle del facile intrattenimento de Il ritorno dei morti viventi di Dan O’Bannon… fino ad un epilogo che, prima dei titoli di coda accompagnati da Luce mia della band Il Muro del canto, dopo quella che sembrava una pessimista (e, a suo modo geniale) chiusa di taglio romeriano, lascia intravedere sprazzi di speranza che rischiano di danneggiare, però, le intenzioni antifasciste di Go home – A casa loro.

 

 

Francesco Lomuscio