Guido Chiesa ci parla del suo film “Belli di papà”

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Guido Chiesa non ha certo bisogno di presentazioni. Sue alcune pellicole indimenticabili, e solo per fare delle citazioni , Il partigiano Jonny e Lavorare con lentezza .
Questa volta, però, la sua regia tocca il genere della “ commedia”. Una vera novità.

Guido ciao, è doveroso iniziare questa intervista facendoti i complimenti per il successo che il tuo ultimo film sta riscuotendo : oltre 4 milioni di incasso , e i primissimi posti nelle vette delle classifiche dei film più visti. Complimenti davvero! La tua passione per la Regia da dove nasce, e quando inizia?

La mia famiglia non si è mai occupata di cinema e nessuno mi ha incoraggiato in questo senso. Ho incominciato ad interessarmi al cinema durante l’ultimo anno del liceo, più come alternativa all’impegno politico che per reale vocazione. All’università ho iniziato a studiare Storia e Critica del cinema, ma ho subito virato verso la regia, il “fare-cinema” più che l’analisi dei film. Sebbene non avessi ancora ben chiaro in testa che cosa significasse fare il regista, la regia esercitava una grande attrazione ai miei occhi perché mi permetteva di scrivere, di occuparmi di recitazione, di lavorare con la musica – le mie grandi passioni – pur non sapendo fare bene nessuna di queste attività espressive.

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Rispetto alle tue scelte stilistiche precedenti, legate più ad un cinema impegnato e serio, stavolta dirigi e firmi ( assieme a Giovanni Bognetti ) una commedia .
Come mai questa scelta? Era un desiderio che avevi già da tempo, un cambio di rotta o solo un esperimento?

Quando ho iniziato a collaborare con la Colorado Film – dirigendo la serie tv “Quo vadis baby” (2008) – Maurizio Totti mi chiese se fossi stato disponibile a dirigere anche film più orientati verso il mercato, rispetto a quelli drammatici, “difficili”, che avevo realizzato fino a quel momento, come “Io sono con te”, il mio precedente lavoro, prodotto proprio dalla Colorado con Magda e Rai Cinema nel 2010.
Mi sono subito dichiarato disponibile. Non avevo alcuna preclusione verso questo genere. Già dopo “Lavorare con lentezza” (2004) avevo intenzione di dirigere una commedia (si chiamava “Lo sbarco di Anzio”, scritta con Nicoletta Micheli e Fausto Paravidino), così come dopo “Io sono con te” (in questo caso si chiamava “Flower Power” scritta con Gianfranco Giagni e Francesco Trento). In entrambi i casi, i progetti non sono andati in porto perché hanno incontrato un certo scetticismo da parte dei finanziatori, probabilmente perché non mi ritenevano adatto a girare film del genere.

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Il film è un remake (molto libero) di una commedia messicana non molto conosciuta. L’hai scelta tu ,come spunto iniziale a cui ispirarti?

Quando la scorsa primavera, Totti mi ha proposto di dirigere “Belli di papà” prima di dargli una risposta ho chiesto di vedere il film messicano a cui è ispirata (“Nosotros Los Nobles” di Gary Alazraki) e ho trovato stimolante la storia. Ancor di più, il soggetto ricavato da Giovanni Bognetti per la versione italiana mi è apparso intrigante, incisivo e ben calato nel contesto del nostro paese.
Quando poi mi sono messo a lavorare con lui sulla sceneggiatura, ho puntato ad ampliare il discorso sul rapporto genitori/figli che nel film messicano rimane abbastanza sullo sfondo, mentre per me, oltre ad essere un argomento sempre di attualità, rappresenta un tema decisivo nella vita di ogni individuo: tutti – anche chi decide di non essere padre, o non può essere esserlo – siamo e sempre saremo comunque figli di qualcuno. Per questo, sebbene sia una storia che non ho concepito io, considero “Belli di papà” un film personale”.

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Nel riadattamento e riscrittura, le scene e i dialoghi sono stati pensati già con il riferimento degli attori che poi ne sarebbero stati protagonisti, o la scelta del cast è arrivata dopo?

Quando sono stato coinvolto nel progetto, c’erano solo tre attori già decisi.
Il primo è ovviamente Diego Abatantuono. Il film è stato “pensato” per lui e in effetti era perfetto per la parte. Il suo personaggio, in sede di sceneggiatura, è notevolmente cresciuto rispetto alla commedia messicana di partenza, che era più incentrata sui figli. Diego ha portato al film un tipo di comicità che trovo molto efficace e che mi ha ricordato il periodo d’oro della sua carriera, quello che va da “Turnè” a “Mediterraneo”, da “Il barbiere di Rio” a certi film di Pupi Avati. Film in cui recitava da commedia, ma su un registro al contempo realista e cinico. In più, in questa occasione, è alle prese con un ruolo di padre che lo rende ancora “più grande”, nel senso che Orson Welles dava a questa parola quando parlava di attori. Anche Antonio Catania faceva parte del progetto prima del mio coinvolgimento. E’ un attore che mi piace moltissimo: doveva già recitare in “Il partigiano Johnny”, ma fu costretto a rinunciare all’ultimo momento per impegni su un altro set.
Il terzo già sotto contratto era Andrea Pisani, che avevo conosciuto su “Fuga di cervelli” di Paolo Ruffini (film di cui ero stato il produttore artistico), dove avevo intuito che fosse un attore completo, non solo un comico. Il lavoro in sede di sceneggiatura, per quanto riguarda questi tre attori, è stato fatto anche pensando alle loro caratteristiche recitative.
Tutti gli altri, invece, sono stati scelti a sceneggiatura terminata, ma come sempre accade, i dialoghi sono stati poi ri-calibrati sugli attori scelti.

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Parliamo ora nel dettaglio del cast artistico:
Tutti bravissimi gli attori, perfetti nei ruoli e capeggiati da un “fotonico” Diego Abatantuono che riesce a dare spessore e delicatezza alla figura di questo padre; pur mantenendo vivi i toni della commedia con la sua comicità tagliente ,che da sempre lo contraddistingue. Un cast che spazia da attori di conclamata esperienza, come il bravissimo Antonio Catania, ad esordi come per Francesco di Raimondo, a talenti già noti al cinema italiano come per Matilde Gioli (tutti la ricordiamo nel Capitale Umano), fino ad arrivare ad Andrea Pisani ,che pur non essendo alla sua prima esperienza cinematografica, arriva dal cabaret dei PanPers , e a personaggi dello spettacolo come per Francesco Facchinetti . Com’è stato dirigere attori con provenienze esperienziali così diverse, e trovare un modo per amalgamarli tra loro ?

Non esiste una ricetta unica e i fattori per ottenere l’amalgama di un cast sono molti e di diversa natura. Oltre alla capacità del regista di tenere in pugno la situazione, alla disponibilità degli attori e alla capacità della produzione di mantenere un buon clima sul set, in questa specifica occasione ci ha dato una grande mano la scelta di girare la maggior parte del film ad Avetrana. Non solo è un posto splendido, con un mare meraviglioso, ma la gente del posto è stata di una ospitalità rara.

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Il modo di girare, le riprese di una commedia, sono differenti da quelle utilizzate per altro genere cinematografico?

Non molto, almeno per me. La principale differenza è il lavoro con gli attori. A questo proposito, ho imparato molto lavorando nei film di Paolo Ruffini, ad esempio su come “sfruttare” l’esuberanza degli attori comici, lasciandoli andare per la loro strada, senza ingabbiarli troppo, per poi magari tirare la corda quando se ne vanno per la tangente.

Il film, come ci dicevi,è stato girato ad Avetrana ,zona per me facilmente riconoscibile essendo per metà pugliese. Come mai questa scelta? Conoscevi già quei luoghi ?
Il Sud che ci restituisci non è stereotipato ,ma viene descritto in tutta la sua bellezza e ricchezza di peculiarità. Accennavi anche di esserti trovato bene con la gente del posto, giusto?

Come ho detto prima, benissimo.
Sapevamo di voler girare al Sud, in una città “problematica”, ma non da cartolina. Soprattutto senza gli stereotipi, anche cinematografici, che si portano dietro nel bene o nel male città come Napoli o Palermo. Taranto e la sua provincia erano uno scenario ideale perché́ contengono al loro interno tutte le dinamiche che compongono il dramma ma anche il fascino del Meridione: pensiamo alla questione ILVA o al degrado della Città Vecchia – in cui si trova la casa natale del personaggio interpretato da Abatantuono; oppure alle bellezze naturali e al dinamismo di tanti giovani – imprenditori, operatori della cultura e del turismo – che cercano di smuovere l’apparente immobilismo cronico di questa parte d’Italia (apparente perché, ad esempio, un film del genere vent’anni fa si sarebbe potuto ambientare a Bari o Lecce, ma queste città negli anni hanno subito una trasformazione, anche urbanistica, decisamente significativa). Non era nostra intenzione fare un film sociologico, tanto meno di denuncia dei problemi del Sud: c’è chi sa farli molto meglio e con più competenza di noi. Ci interessava invece ambientare la storia in quello che sembra un contesto degradato, per poi scoprire al suo interno un’umanità̀ varia, ricca di sfumature, con idee e preoccupazioni tutt’altro che scontate. Oltre che a Taranto, abbiamo girato anche a Manduria e San Marzano di San Giuseppe, ma soprattutto ad Avetrana, paese che conosco bene perché́ da anni vengo al mare con la famiglia qui vicino. Ovviamente l’ho proposta perché́ conoscevo bene le location, la disponibilità̀ della gente e perché́ girare tutto il film a Taranto sarebbe stato logisticamente difficoltoso, per via del traffico e degli spostamenti. Inoltre, Avetrana ha un aspetto urbanistico particolare rispetto ad altri piccoli centri del Sud che diventano subito folkloristici, molto da cartolina: ricorda un po’ il Texas, con case basse e bianche, circondato da ulivi e cave, con il silenzio solcato solo dal vento e dalle cicale. È un paese modesto, ma non degradato, con un centro storico piccolo e un’enorme “periferia”. È una sorta di non-luogo, perfetto per la nostra storia, che avrebbe sofferto se fosse stata imprigionata in un contesto urbanistico troppo “forte”. Invece, così, è collocata in una sorta di indefinita provincia. Un ambiente sociale e umano con cui i nostri tre protagonisti si scontrano – cresciuti non per colpa loro nella bambagia del Nord ricco – ma anche che permette loro di maturare, di scoprire un modo veramente diverso di affrontare la vita. Tanto che, alla fine…
Infine, anche se in maniera secondaria, la scelta è caduta su Avetrana perché́ ci sembrava bello e giusto offrire ai suoi abitanti un’occasione di notorietà̀ positiva: non è possibile che si parli di un luogo solo in relazione a un delitto!

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La storia affronta, anche se in chiave leggera e ironica, il tema del rapporto genitore e figli. In questo caso, poi, la novità sta nel fatto che il genitore di riferimento sia un padre e non una madre, come invece comunemente accade. Sei padre di tre figli…girando, hai riscontrato analogie con il tuo vissuto ?

Per quanto il personaggio interpretato da Abatantuono sia estremamente distante dalla mia esperienza, alcune sue caratteristiche mi ricordano alcuni aspetti del mio essere padre: l’ossessione per il lavoro, una certa distrazione, la conflittualità specie con le figlie. Come per lui, anche per me non è facile essere padre. Forse, l’unica vera differenza, è che non ho aspettato tanti anni prima di incominciare a mettermi in discussione…

Questo tuo successo è un successo per il Cinema Italiano. Un cinema in questo caso legato al genere leggero della commedia, ma non per questo privo di spessore e di spunti su cui riflettere. Credi che ripeterai l’esperienza di girare per questo genere di film?

Mi piacerebbe molto. Se Dio vorrà continuerò a fare commedie, così come tornerò a fare film “difficili”, con un mercato ristretto e scarse possibilità di recupero per i produttori. Per me saranno personali tanto quanto le commedie, perché ci metterò dentro tutto me stesso, tutto quel so, sono e sento.

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Hai già progetti ai quali pensi o stai lavorando per il prossimo futuro, e puoi ( vuoi ) parlarcene?

I progetti sono tanti, molto diversi tra loro. Ma un minimo di scaramanzia mi impone di tacere…

Guido, l’intervista finisce qui. A nome mio e di tutta la redazione grazie per averci concesso un po’ del tuo tempo.
Ti saluto rinnovandoti i complimenti per la tua carriera e per questo ultimo e meritato successo.

 

Federica Quaglieri

Questa la nostra recensione di “Belli di papà“, nella rubrica “Il Criticone“.

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