Hammamet: il Bettino Craxi di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino

Secondo Woody Allen il cuore e il cervello non si danno nemmeno del “tu”. Gianni Amelio in Hammamet muta definitivamente segno rispetto a Il ladro di bambini che lo elesse, quasi trent’anni prima, ad aedo dell’antiretorica.

L’esimio lavoro di sottrazione, attinto al guru transalpino Robert Bresson, in grado però d’impreziosire la scelta di rinunciare pure al supporto espressivo della musica extradiegetica con la profonda verità interiore, cede all’intrinseca involuzione. Che traligna il sentimento in sentimentalismo. L’incursione nell’humus delle note intimiste, ed ergo private, in un biopic sul personaggio pubblico per eccellenza della nostra tanto vituperata prima Repubblica, Bettino Craxi, affonda le radici, in realtà, nell’opera d’esordio dell’espertissimo regista calabrese, Colpire al cuore. Nomen omen.

Ed è quindi perlomeno curioso che l’apparente cambiamento, anche sul versante stilistico, cominciato già con Il primo uomo e proseguito con La tenerezza, tragga linfa dal passato. La forza sottintesa della consuetudine ivi connessa, sulla scorta del plot redatto insieme ad Alberto Taraglio prendendo spunto da una sorta d’impulso nostalgico, riesce ad assicurare al timbro narrativo un’assoluta onestà d’intenti.

Dietro la ragguardevole capacità di caratterizzazione palesata da Pierfrancesco Favino per trasformarsi letteralmente nell’ex leader del PSI, passato dall’osanna al crucifige in seguito all’uragano di Tangentopoli, c’è il valore aggiunto dell’empatia. Che, forse più del talento dei truccatori nel permettergli di combaciare in maniera sbalorditiva coi tratti somatici dell’ex padrone del vapore, chiamato a ogni piè sospinto “Presidente”, costituisce lo sprone decisivo.

Il rimpianto per l’epoca dispersa, in cui le doti carismatiche e la proprietà di linguaggio esortavano almeno i nostri capi famiglia ad ambire all’eccellenza, anziché lanciare strali tanto aguzzi quanto ovvi contro i detentori del privilegio di prescrivere normative vigenti in seno allo Stato, possiede in sé una fondatezza sotto l’aspetto dell’intrinseco panegirico. Amelio, tuttavia, sembrava più ispirato in gioventù dalla virtù di afferrare l’aura contemplativa grazie agli eloquenti silenzi in antitesi all’elegia romantica cara al Maestro capitolino Sergio Leone e all’allievo siciliano Peppuccio Tornatore.

L’innesto, inoltre, dei palesi echi surreali, che richiamano alla mente il carattere d’ingegno creativo di Luis Buñuel ed Elio Petri, risulta valido solo nell’incipit, con il Presidente ignaro della tempesta destinata a sbalzarlo dal pulpito, privilegiando, agli applausi scroscianti, il sibilo sinistro del vento. L’intero prosieguo, ambientato nella città tunisina del titolo, a sud-est di Cap Bon, invece di rendere visibile l’invisibile, che risiede nelle parole non dette e dunque nei meandri dell’anima stretta d’assedio dai ricordi, si affida sin troppo alla colonna sonora del pur abilissimo Nicola Piovani.

Mentre la scena in cui Bobo Craxi dedica la canzone Piazza Grande all’immusonito Presidente coglie nel segno, sebbene attinga parecchio alla sequenza del deludente Il padrino parte III dove l’affezionato figlio di Michael Corleone intona un’aria lirica in dialetto siciliano per il padre, le cadenze thrilling finiscono col trascinare gli spettatori in una noia di piombo. La pesantezza dei vari motivi d’inquietudine, enfatizzati ad arte, sottrae spazio alla facoltà mitopoietica della location.

L’interazione tra interni ed esterni paga dazio ad alcune inutili perorazioni precettistiche estranee alla carica significante ed evocativa della miglior geografia emozionale. Gli elementi ambientali della prigione dorata, impreziosita dall’essenza metaforica dell’angosciante piscina, colma di fango, con l’ingresso di una sorta di grillo parlante simile a quello della miniserie televisiva Ferrari, favoriscono uno spessore crepuscolare piuttosto convincente. Merito altresì della cura dei dettagli dell’attento scenografo Giancarlo Basili. I quadri di Garibaldi, in particolare, chiudono il cerchio con l’autentica, toccante ammirazione nei riguardi dell’eroe dei due Mondi che rinsalda l’intesa con il tenero nipotino.

L’effigie della spiaggia africana e dei vicoli limitrofi ha viceversa poco rilievo. Al contrario dell’immagine della fantasticata Milano. Che alberga nei sogni del boss ridotto al lumicino. Il radicalismo mimetico di Favino, che non ha nulla da invidiare ai camaleontici alfieri dell’Actors Studio, conferisce un fulgido calore umano all’aderenza tecnica all’arduo ed emblematico personaggio.

Tormentato, sul finale, dall’incubo capace d’incrinare la facciata dell’indistruttibile arroganza. La parentela, però, nemmeno alla lontana, col don Vito Corleone interpretato dal mostro sacro Marlon Brando e l’immalinconito Principe di Salina del cult autoctono Il gattopardo, simbolo per antonomasia dell’inadeguatezza alla cruda mutabilità degli eventi, trascina nell’impasse del déjà-vu persino lo slancio originario della dotta recitazione.

Il resto del cast, inoltre, appare poco all’altezza della situazione. Tranne Claudia Gerini, bravissima, nel ruolo dell’amante negletta, a incidere molto disponendo di ben poche pose e d’inquadrature meno lusinghiere del solito. L’inane ripiego finale nell’ennesimo vagheggio, in compagnia dell’etereo genitore, che segna l’addio terreno del compianto Omero Antonutti, cerca l’idoneo colpo d’ala senza saper unire i balzi di rabbia ai semitoni del rimorso. Hammamet rimane un onesto tentativo di rinverdire la ricerca del tempo perduto di Proust. Ad Amelio calza comunque meglio il pudore poetico. Alieno, sia in prassi sia in spirito, alle componenti manieristiche dell’ampolloso rammarico di circostanza.

 

 

Massimiliano Serriello