A quindici anni di distanza dall’atmosfera d’estrema ed emblematica tensione portata ad effetto nel giallo spurio Ajami, co-diretto insieme al poliedrico collega israeliano Yaron Shani svelando l’enigmatica spirale di spaventevoli conseguenze innescate dall’atto definitivo di efferatezza connessa alla convivenza forzata nel quartiere che dà il titolo al film tra arabi ed ebrei, l’ambizioso regista palestinese Iskandar Qubti torna in cabina di regìa con Happy holidays.
L’incipit al pronto soccorso, dopo l’incidente d’auto avvenuto all’acme della festività ebraica di Purim, riassume nei sapienti dettagli conformi all’erudito lavoro di sottrazione l’altalena degli stati d’animo congiunta agli spicchi di vita dispiegati in un quadro corale attinto alle sagaci opere a mosaico dei compianti Robert Altman ed Ettore Scola.

L’interazione tra inquadrature di quinta d’ascendenza zavattiniana ed eloquenti silenzi, in linea col processo di stilizzazione intento ad anteporre l’essenziale agli strati superflui dell’enfasi di maniera, veicola dapprincipio l’opposto processo d’identificazione del pubblico più avvertito in merito al segreto sul sinistro stradale custodito dall’immusonita Frida in vicende domestiche così lontane così vicine tra loro. Per dirla alla Wim Wenders. Guru per antonomasia della geografia emozionale nella fabbrica dei sogni. Ghermita appieno, sulla scorta del senso di appartenenza dell’arguto Iskandar Qubti col quartiere d’origine, in Ajami. Coi modi di reagire agli incubi a occhi aperti riverberati, a dispetto della controversa palingenesi da quartiere popolare a zona residenziale, dalla cosiddetta università della strada. Scalzata invece dalla prevalenza dei consorzi domestici nel prosieguo di Happy holidays. Contraddistinto dalle crescenti ubbie del fratello di Frida, Rami, mollato su due piedi dall’indispettita amante Shirley. Decisa a portare avanti la gravidanza sgradita al partner poco incline pure ai matrimoni misti e all’integrazione culturale. Il tentativo di riuscire ad appaiare la contemplazione dell’aura ascetica al dinamismo dell’azione, col cuore in gola, per i genitori di Frida e Rami decisi a seguire la procedura meno standard per ottenere il massimo del risarcimento, per le minacce subite dal tombeur de femmes restio a divenire padre, per la congerie d’ipotesi della compagnia di assicurazione, pervade poco.

Perché la linea di demarcazione tra il brivido del thriller e l’analisi meditabonda degli assilli quotidiani si va ad appaiare più compiutamente ai semitoni elegiaci rispetto agli accenti dell’attesa colma d’angoscia. Il sentimento dell’incertezza, quindi, anziché fungere da fulgido ma superficiale coefficiente spettacolare ed elemento di richiamò presso il pubblico allergico ai dispendi di fosforo, va sotto pelle. In profondità. Spingendo le platee dai gusti semplici a spremersi maggiormente le meningi sul pluralismo dei punti d’origine pirandelliana che attanaglia al medesimo modo personaggi divisi tra loro da differenze culturali, religiose ed etniche. Il significato pratico dell’adagio popolaresco “Ogni capoccia è un tribunale”, equiparabile alla celeberrima locuzione latina “Tot capita, tot sententiae”, consente all’autore, scevro dall’onere di dirigere in tandem, di dire davvero la sua opinione, frutto della conoscenza intima del tema in ballo, concernente il condizionamento ambientale e familiare sulla spontaneità di tratto della gente coi paraocchi. L’angolo visuale scelto allarga man mano la prospettiva, con le beghe dispiegate dalla caccia al profitto con buona pace dell’assicurazione sanitaria, i referti pervasi di mistero e l’ennesimo puzzle da riempire pezzo per pezzo. Il gioco geometrico dell’intrigo, che converte un momento in teoria gioioso come la festa in un amaro scandaglio di determinate dinamiche identitarie e disfunzionali, non ricava molta linfa dalla reiterazione dei pedinamenti cari a Cesare Zavattini.

L’asticella si alza quando affiorano dei particolari pieni di significato nei brindisi precari, nelle punture di spillo riservate ai vincoli di sangue, compreso quello aggiunto, e di suolo, nelle sirene d’allarme a Gerusalemme, nel passaggio dagli interni agli esterni. Col chiarimento in spiaggia e il bagno al mare che lì per lì sembrano scongiurare il logorio dell’ennesima coppia che scoppia. Il carattere d’autenticità delle continue decisioni da prendere per ovviare allo scoglio dell’incomunicabilità. La tematica calata in una mera cornice sentimentale pagherebbe dazio alla penuria del dato oggettivo. La decisione di non voler discostarsi dalla contemplazione del reale, per non alterarne lì per lì la percezione riguardante altresì una clownoterapia estremamente incisiva, consente di conciliare stilemi agli antipodi. Il dato soggettivo prende piede per chiudere ad hoc il cerchio. Impreziosito dalla rilevazione disturbante del Ricordo israeliano. Il carattere d’autenticità si va così a connettere in zona Cesarini col redivivo carattere d’ingegno creativo. Necessario a conferire sul serio al filo del racconto agli sgoccioli di Happy Holidays l’aura contemplativa della poesia. Che snoda, al pari di opportuni campi e controcampi, l’implicito deposito d’incertezze, d’orrore ed errori attraverso un’angolazione composita ed esaustiva del rapporto tra cinema e territorio. Zeppo di memorie. Spesso affossate.
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