Hatching – La Forma del Male di Hanna Bergholm

Parte come una fiaba nera alla Tim Burton, per poi spostarsi nei territori dell’horror più puro e terrificante fino a sfociare in un dramma familiare di dimensioni cosmiche, tutto, sempre, permeato da una sottile quanto tagliente critica verso la società dell’apparenza, dell’esteriorità vuota di sostanza, del dover essere sempre i primi, a discapito di tutto e di tutti. Questo è Hatching – La Forma del Male (Pahanhautoja), primo lungometraggio della regista finlandese Hanna Bergholm, presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2022, e da poco anche nelle sale italiane. Hatching è senz’altro un’opera che lascia il segno, permeata da un’eleganza formale tutta squisitamente nordica, anche in quelle poche scene che si avvalgono di cliché ed espedienti tipici del cinema horror di stampo statunitense. Supportata da un cast notevole, una fotografia pastello semplicemente perfetta, una sceneggiatura che, sebbene imperfetta, centra in pieno il bersaglio, e da una creatura animatronica realizzata nientemeno che dagli effettisti di Jurassic World, la Bergholm mette perfettamente a frutto la sua laurea in Arte e Design con Master in Regia Cinematografica, costruendo una piccola opera d’arte che non può che restare nel cuore dello spettatore, e che fa male, tremendamente male, fino alle lacrime. Non è un caso se a pochissimo dalla sua uscita il film si è già aggiudicato il Grand Prix ed il Prix du Jury Jeunes al Festival international du film fantastique de Gerardmer 2022.

La famiglia della piccola Tinja sembra proprio la famiglia perfetta, la cosiddetta famiglia del Mulino Bianco, per dirla all’italiana. La Madre, popolare influencer, riprende costantemente la loro vita privata per condividerla sui social e mostrare al mondo intero quanto sia bella ed invidiabile. Un pomeriggio, durante l’ennesimo video nel salotto di casa, che vede riuniti padre, madre, Tinja ed il fratellino, un grosso corvo nero entra dalla finestra andando a turbare la serenità familiare, sbattendo da tutte le parti e distruggendo tutto, vasi, suppellettili, tirando giù perfino il grosso lampadario di cristallo. Dopo che la bimba riesce a prenderlo con una coperta la madre lo uccide e la invita a buttarne la carcassa nell’umido. La piccola, tuttavia, la notte è sopraffatta dai sensi di colpa e non riesce a dormire, così seguirà le urla di un uccello nel bosco, dove troverà il corvo, morente ma ancora vivo, ed accanto un uovo. Tinja, dopo aver ucciso l’uccello per liberarlo dalle sue sofferenze, prende l’uovo ed inizia a covarlo nel suo letto sotto il suo enorme orso di peluche, fino alla sua inevitabile schiusa, che rivelerà all’interno l’essere più strano e mostruoso che si possa immaginare. Da quel momento la vita di Tinja e della sua perfect family comincerà ad incrinarsi, facendo pian piano crollare tutte le facciate e le ipocrisie e svelando la vera natura di ognuno.

Hanna Bergholm inizia la sua critica ad una società fatta solo di apparenza, ma sotto la maschera della perfezione piena di falle e marciume, ponendo sotto il suo caustico mirino una delle figure più popolari del nostro tempo, quella del blogger. Figure come i ben noti Fedez e Chiara Ferragni vivono costantemente la loro vita sui social, condividendo ogni loro momento, dai successi lavorativi all’intimità, fino alle sfere più estreme e familiari, rendendo i bimbi piccoli divi a loro insaputa, e sicuramente senza chiedere loro il permesso, e puntando sui loro successi come fossero i propri, mettendoli sotto una costante pressione. Così fa la madre di Tinja, che sembra nata dall’unione di un personaggio di Tim Burton con uno di Yorgos Lanthimos, con quel sorriso finto stampato perennemente sulla faccia, ed una spiccata preferenza verso la figlia, della quale vuole fare una campionessa di ginnastica, mentre trascura e bistratta il figlio più piccolo, che cresce pieno di rancore verso la sorella, ed alla ricerca disperata di attenzioni della madre, clone perfetto del padre, fantoccio senza personalità, il cosiddetto uomo-zerbino per antonomasia. Certamente i ruoli femminili sono i più interessanti in questo lavoro, e la scelta delle due attrici che interpretano Tinja e la madre non poteva essere più azzeccata. La piccola è interpretata dalla giovane Siiri Solalinna, al suo debutto sul grande schermo, mentre la madre è l’attrice finlandese – svedese Sophia Heikkilä, con una preparazione teatrale assolutamente propedeutica al ruolo che deve interpretare.

Altro punto di forza del film è il colore, sottolineato dalla sognante fotografia di Jarkko T. Laine, che ci immerge in un’atmosfera fiabesca che mi ha ricordato certi lavori di Oz Perkins quali February e Gretel e Hansel, ma anche gli scenari irrazionali di Jordan Peele. Ed in affetti, da Us, secondo lungometraggio di Peele, questo Hatching sembra attingere l’idea del Doppelgänger, del doppio, o cosiddetto “gemello maligno”, partorito dalla propria coscienza come capro espiatorio su cui riversare il nostro lato più oscuro ed i desideri più inconfessabili. Alli è una sorta di alter ego di Tinja, nata dal suo dolore represso, dalla sua insoddisfazione, dalla rabbia, dalla consapevolezza di non essere veramente amata né dalla mamma arrivista né dal papà inetto, dalla frustrazione, dalla solitudine, dal bisogno disperato di contare veramente qualcosa per qualcuno. I colori quindi identificano perfettamente gli attori di questo terribile dramma familiare: Tinja è perennemente vestita di bianco, a sottolineare la sua purezza; a contrasto con essa troviamo Alli, dalle piume nere come il carbone; e poi i due genitori che sono un po’ i Barbie e Ken di questa all’apparenza perfetta casa di bambole, dallo stile forzatamente preppy: la madre sempre in rosa tenue, il papà con l’immancabile camicia azzurra, la stessa che indossa Matias, il bimbo più piccolo, così da far capire subito i compartimenti stagni della casa che vedono da una parte la madre e Tinja e dall’altra il padre e Matias. E, nel centro, spaventosa, pericolosa e mutaforma, Alli, il cui unico interesse sembrerebbe il bene della bimba che covandola le ha dato la vita.

Hatching riesce a mischiare perfettamente i batticuori più riusciti tipici dell’horror di stampo americano con l’eleganza formale che contraddistingue il cinema dei paesi nordici. A tal proposito mi viene in mente un altro racconto filmico che prende spunto dalla natura, da un essere naturale deforme, e che ci trasporta in un mondo di solitudine e di bisogno disperato d’amore, di qualcosa che manca; sto parlando di Lamb, del regista islandese Valdimar Jòhannsson, classe 2021, interpretato da una strabiliante Noomi Rapace. Qui un ibrido uomo/pecora nasce in una remota fattoria islandese, nel nostro Hatching invece il tutto prenderà avvio da un uovo, apparentemente deposto da un corvo che sembrava essere morto ed invece (forse) era ancora vivo. Se Lamb, tuttavia, punta meno sulla paura, sull’orrore, per raccontarci quella che sembra quasi una leggenda ancestrale, Hatching ha invece molti e buoni momenti di puro terrore che non scontenteranno coloro che da un film si aspettano emozioni forti. Alli non rimane nascosta a lungo, diviene co-protagonista di Tinja, nella sua totale mostruosità viscida e raccapricciante, col suo becco dentato ed i suoi artigli, ma anche con i suoi occhioni dolci che suscitano spesso una grande tenerezza. Per realizzare questa creatura animatronica nel modo più realistico possibile, per renderla quanto mai credibile, la Bergholm si è rivolta a quello che è considerato a furor di popolo il miglior designer di animatroni al mondo, Gustav Hoegen, capo designer in cult del calibro di Star Wars, Prometheus e Jurassic World, tanto per citarne qualcuno. Per il trucco prostetico ci si è invece avvalsi di Conor O’Sullivan, nominato all’Oscar per il trucco di Joker in Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, e realizzatore di trucchi per altri colossi quali gli X-Men o Ant-Man and the Wasp. Per muovere quindi il gigantesco burattino che alla fine è Alli ci sono voluti ben cinque operatori che lavorassero contemporaneamente: uno muoveva la testa e uno per ciascuno dei quattro altri arti.

Hatching ci racconta l’irruzione del perturbante nella vita di tutti i giorni di una famiglia che vuole mostrarsi come perfetta; l’irruzione del corvo nero nel salotto, con la distruzione di tutte le suppellettili più preziose e delicate, e per ultima la caduta del lampadario, è emblematica di ciò che sta per accadere a queste persone, le perdite, i traumi, le scosse che dovranno subire, fino al finale che piomba sulle loro teste con la stessa potenza e violenza dell’enorme lampadario che si stacca e cade facendo rimbombare tutta la casa. Attraverso le immagini di questa prima, potentissima scena, la regista ci racconta sibillinamente tutta la vicenda che staremo per affrontare, un espediente che ho trovato davvero geniale. Il perturbante arriva così, senza preavviso, e destabilizza, destruttura, distrugge ogni facciata. L’urlo della madre in auto verso il finale ci fa capire come le cose si siano completamente ribaltate rispetto all’inizio, e le vere indoli di madre e figlia siano state brutalmente rivelate. È senz’altro una storia femminile e raccontata al femminile, questo Hatching, in cui le donne sono le assolute protagoniste, sia in positivo che in negativo, e gli uomini restano sullo sfondo, incapaci di comprendere la situazione che si trovano davanti, la ferinità sprigionata dalle controparti femminili della loro esistenza. Una storia femminile che è a cavallo tra il Coming of Age ed il Body Horror, in cui gli elementi drama si intrecciano con quelli da fiaba gotica, per raccontare i turbamenti collegati con l’entrata nell’adolescenza, coi suoi cambiamenti improvvisi ed inaspettati, non facili da affrontare, accompagnati dalla ribellione verso la potestà genitoriale, in questo caso tossica e velenosa. Dietro il bello, qui, si nasconde il male, mentre dietro la deformità si occulta la parte più autentica di sé, che aspetta solo di potersi rivelare in tutto il suo splendore.

 

https://www.imdb.com/title/tt12519030/

 

 

Ilaria Monfardini