In High life Robert Pattinson canta alla piccola figlia una ninna nanna che ci culla e ci accompagna in un viaggio nello spazio e che rende l’uomo il suo punto centrale. Spazio infinito, l’assenza di tempo, di vecchiaia, di scopo. Dove ci porterà questo viaggio, Willow?
Non è certo un caso che il film diretto da Claire Denis, datato 2018, sia stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani con la motivazione “Una prigione orbitante nello spazio. Una microsocietà divisa per mansioni e generi. Claire Denis racconta la fine dell’umanità all’alba della mutazione definitiva. Autrice che ama reinventare costantemente il suo cinema muovendosi con suprema disinvoltura nei generi, firma un apologo fantascientifico nerissimo e sensuale, erotico e politico. High life è il cinema contemporaneo che sfida il presente, le convenzioni e osa lanciarsi vero il futuro”.
Basterebbe questa dichiarazione per terminare la recensione, in quanto una volta il critico è d’accordo con i critici e, con una certa nostalgia, annota che questo lungometraggio in altri tempi sarebbe stato il film perfetto per chiudere un Fantafestival romano, dove il nome di Pattinson avrebbe attirato anche le fan dell’attore (onestamente sempre più bravo e resta un vero mistero e una macchia sulla carriera la saga di Twilight).
Il film di Claire Denis fonde la fantascienza con la “f” maiuscola, quella di 2001: Odissea nello spazio o Solaris, pellicole forse difficili da comprendere per un pubblico abituato ormai ai cinecomic. High life, quindi, sembra donare speranza al genere tramite un plot che narra come, ormai, un’umanità cerchi di sopravvivere con un’audace missione il cui scopo è estrarre energia da un buco nero attraverso il processo Penrose.
Tra l’altro, viene esplorata la tematica della nascita di bambini durante un viaggio spaziale nonostante i pericoli costanti del vuoto cosmico. E la Denis dimostra che essere donna non c’entra nulla con le presunte quote rosa invocate ai tanti festival di cinema, perché in questo caso parliamo di una bravissima regista.
Come sempre, poi, la fantascienza tende sempre ad essere profetica, e qui il buco nero rappresentato ricorda moltissimo quello M87 fotografato successivamente alla realizzazione di High life, la cui gestazione creativa è durata ben dieci anni.
I molti virtuosismi tecnici, le splendide scenografie (opera dell’artista danese Olafur Eliasson) e una fotografia a dir poco perfetta, lo rendono ancor di più un lungometraggio da non perdere in questo particolare momento dell’umanità, destinata a riflettere lo smarrimento di un pianeta vittima non tanto di un virus, quanto della mancanza di un futuro.
Roberto Leofrigio
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