La schiettezza autobiografica di Honey boy è fuori discussione. Il film palesa diverse credenziali sul versante dell’ambìto status d’autorialità.
La sceneggiatura redatta dal versatile Shia LaBeouf, passato spigliatamente dalle prove fornite nell’humus di presa immediata del mainstream con lo studentello che la sa lunga dei primi tre Transformers al maldestro Jerôme, schiavo della libido, in Nymphomaniac: volume I dell’anarcoide Lars von Trier, tiene desta l’attenzione. L’esordiente Alma Har’el si limita in cabina di regìa ad appaiare i ricordi dell’attore statunitense, costretto dall’autocrate padre a divenire sin da piccolo una sorta di fenomeno da baraccone, ad alcuni segni d’ammicco nascosti dietro i modi asciutti delle soluzioni espressive.
L’egemonia dell’intelaiatura narrativa sul valore attrazionale dei movimenti di macchina, delle tecniche di montaggio, delle carrellate in avanti e all’indietro non toglie un grammo d’incisività, almeno dapprincipio, al dipanarsi della trama. La fragranza della sincerità, sia pure acre e disturbante, o forse a maggior ragione proprio in virtù dell’assenza dei colpi di gomito in grado di mandare in brodo di giuggiole le platee meno scaltrite, che confondono le carinerie col contegnoso dolore, riesce a sopperire alla penuria di scelte creative. Tuttavia quando il dissoluto James Lort, impersonato da LaBeouf con apprezzabile slancio emotivo ma senza riuscire davvero a trarre linfa dall’interazione tra la sfera delle emozioni personali e le dinamiche introspettive, riempie gli incubi del giovane Otis, il pregio artistico sembra latitare. L’odissea del fragile ragazzo, demolito dalla dipendenza dall’alcool, seppur deciso a divenire un interprete capace di conquistare la piena notorietà, necessitava d’un uso tanto dell’analessi quanto della prolessi assai meno convenzionale. Il procedimento della retrospezione, partendo dal soggiorno forzato in clinica alla ricerca del tempo perduto cara a Marcel Proust, sta a C’era una volta in America di Sergio Leone, col dovuto rispetto, come Alvaro Vitali sta ad Alberto Sordi. Ed è lì che lo spettacolo di secondo piano della recitazione di LaBeouf, che cerca di sconfiggere i demoni privati costituiti dai duri trascorsi colmi d’indicibile sofferenza incarnando il padre colpevole di aver spinto il sangue del suo sangue sull’orlo del baratro, diviene il maggior motivo d’interesse.
Noah Jupe, a dispetto della scarsa esperienza sul grande schermo, se la cava discretamente nei panni dell’adolescente bisognoso di tenerezza. Anche se finisce per far scivolare l’amara vicenda negli intoppi del mélo di maniera. Con buona pace dell’apparente lavoro di sottrazione. Frutto, in ogni caso, a ben guardare, più del manchevole carattere d’ingegno creativo di Alma Har’el che dell’assennata rinuncia ad aggiungere sentimento al sentimento e aneddoti su aneddoti. L’aneddotica, forte di un’identità specifica, relativa all’altalena degli stati d’animo, accresce la suggestione delle penombre psicologiche e di una certa vena elegiaca legata all’eco del cult neorealista Bellissima di Luchino Visconti. L’effigie dell’empio genitore stempiato, col look in bilico tra l’immagine dello scienziato pazzo e quella dell’incorreggibile loser, tiene legati alla poltrona le platee dai gusti semplici. Alla Festa del Film di Roma 2019, dove il film è stato proiettato in anteprima italiana, è successo proprio questo. Il pubblico dal palato fine, avvezzo alla crescita intellettuale garantita dall’acume privo di filtri furbi ma risaputi, ha apprezzato all’inizio l’analisi sensibile delle velleitarie buone intenzioni. Sia dei protagonisti sia dell’esito conclusivo. Che, almeno sul piano dell’energia immaginifica, svapora in una bolla di sapone. Il rapporto, infatti, tra immagine e immaginazione risente dell’infecondo sentimentalismo. Le cui modalità esplicative prendono spazio a dispetto degli stilemi dell’opera di denuncia votata all’emblematica sobrietà.
Un contrasto causuale con l’ubriachezza dell’irresponsabile papà e con l’andirivieni dei traumatici ricordi. Il ritorno al presente, nonostante l’aderenza di Lucas Hedge all’angoscia del fanciullo divenuto uomo, non giova affatto a Honey boy. Il montaggio alternato a tal riguardo stenta ad amalgamare dei match-cut visivi che estraggano conigli dal cilindro. Gli elementi ambientali, coi tuguri dove il calore domestico appare una mera utopia, steccano contro i giochi al rimpiattino. Graditi al primo momento dai cinefili. Memori dei nobili predecessori. A lungo andare, comunque, l’alterigia di attingere persino ai capolavori di Fëdor Dostoevskij, adattando la miseria concreta e morale dell’Ottocento agli spasimi del Nuovo Millennio, rende il film un’esasperazione dei contesti sociali che investono l’intimità. Con immigrati, prostitute, figure di fianco, vincoli di sangue e di suolo rei di pesare in maniera negativa sul piatto della bilancia: in conclusione pende tutto dalla parte del déjà-vu. Peccato che la virtù di scrivere con la luce, garantita dalla fotografia di Natasha Braier grazie all’ampia scala di grigi connessi all’umore spesso sotto i tacchi, non consenta a Honey boy di sottrarsi al vezzo d’inserire varianti poco degne di nota all’inane bozza dell’alfabetizzazione esistenziale.
Massimiliano Serriello
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