Autore, tra l’altro, di Frontiers – Ai confini dell’inferno e Hitman – L’assassino, è il francese Xavier Gens a figurare in qualità di produttore esecutivo di Hostile, che, primo lungometraggio diretto dal Mathieu Turi vantante una lunga carriera di assistente alla regia (Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino e Sherlock Holmes – Gioco di ombre di Guy Ritchie nel curriculum), non va assolutamente confuso con l’omonimo horror firmato nel 2014 dal giovanissimo Nathan Ambrosioni.
Con una desolata e desertica ambientazione che sembra quasi richiamare alla memoria quella del franchise Mad Max, ne è protagonista Brittany Ashworth nei panni della Juliette che, rientrante tra i pochissimi in lotta per la sopravvivenza in un mondo colpito da una spaventosa epidemia, finisce incastrata sotto un veicolo rovesciato, mentre un minaccioso essere sicuramente dovuto al virus e di cui vediamo soltanto le magrissime gambe si aggira intorno.
Una tesa situazione in un certo senso analoga a quella vissuta dalla Aylin Prandi rinchiusa in automobile e circondata da morti viventi in Almost dead di Giorgio Bruno e che, in questo caso, viene continuamente alternata al passato della ragazza, che scopriamo essere stata una sbandata tossicodipendente destinata a stringere un legame sentimentale con il facoltoso artista Jack, interpretato dal Grégory Fitoussi visto, tra l’altro, in G.I. Joe – La nascita dei Cobra e World War Z.
Del resto, man mano che la vicenda si evolve lentamente, è proprio attraverso i flashback che lo spettatore viene a conoscenza delle motivazioni che hanno generato il flagello e dei retroscena relativi alla vita di Juliette; fino ad una fase conclusiva in cui trova spazio anche lo splatter, sebbene relegato ad una fugacissima manciata di fotogrammi.
Perché la evidente intenzione di Hostile non è regalare raccapriccio a suon di immagini truculente ed abbondanza di effetti speciali di trucco, bensì costruire progressivamente un racconto di tensione – a suo modo claustrofobico, sebbene caratterizzato da esterni – che guarda, probabilmente, più ad una certa autorialità da schermo che alla più banale produzione di genere.
Di sicuro, non per palati facili in cerca di emozioni da brivido immediate, ma affascinante nel rivelarsi – un po’ come Spring di Justin Benson e Aaron Moorhead – romantica allegoria relativa ai sacrifici che si affrontano in nome dell’amore.
Francesco Lomuscio
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