Nel mondo scintillante del cinema, dove sogni e grandi visioni sembrano prendere vita su grande schermo, si nasconde un’ombra oscura: quella di chi millanta ricchezze, importanza e progetti faraonici, per poi rivelarsi nient’altro che un bluff, un’illusione costruita su promesse vuote e bilanci inesistenti. È una storia che si ripete con una frequenza allarmante, un copione che lascia sul lastrico non solo gli artisti, ma anche tecnici, comparse e chiunque abbia creduto nelle parole pompose di presunti “produttori” o “associazioni culturali” che si spacciano per colossi dell’industria cinematografica.

Immaginate una produzione che si presenta come un progetto ambizioso, con budget stellari e nomi altisonanti, ma che, una volta terminate le riprese, si scopre essere un castello di carte. Si parla di film magari evocativi di epiche narrazioni del passato, ma la realtà è ben diversa: i soldi promessi non ci sono, i fondi stanziati si sono volatilizzati in un “sforo di budget” doppio rispetto alle previsioni – una pratica, sì, comune nel cinema, ma che in mani disoneste diventa un pretesto per scaricare le responsabilità e lasciare debiti e lacrime a chi ha lavorato con passione e fiducia. Si narra di associazioni senza scopo di lucro che, pur dichiarando di non guadagnare un euro, finiscono per perdere cifre ingenti (si dice 45.000 euro, in un caso) per coprire spese extra, elargendo parcelle parziali a cast e crew, mentre i veri titolari dei diritti – i veri burattinai – si lavano le mani, lasciando che siano altri a farsi carico di un disastro non loro.

Eppure, questi “esecutivi” o “produttori esecutivi” si difendono: non sarebbero responsabili, sostengono, perché i fondi mancanti dipendono da chi detiene i diritti del film, da qualche entità esterna che non ha mai messo mano al portafoglio. Ma allora, ci si chiede, perché accettare di avviare un progetto senza garanzie finanziarie concrete? Perché promettere compensi e poi lasciare che attori e tecnici aspettino mesi, se non anni, per un pagamento che potrebbe non arrivare mai, o arrivare solo dopo un decreto ingiuntivo – con costi legali che superano addirittura il debito stesso, come un’ironia amara?

Il paradosso è che queste realtà, spesso mascherate da associazioni culturali o piccole produzioni, si ergono a paladine dell’arte cinematografica, ma si muovono come speculatori senza scrupoli. Millantano partnership con grandi nomi, distribuzioni internazionali, ma alla fine si rivelano bidonisti, incapaci di onorare gli impegni, lasciando dietro di sé un sentiero di frustrazione e debiti. Si parla di attese infinite per “soluzioni necessarie”, di liste di pagamenti “prioritari” che sembrano più un miraggio che una promessa, mentre chi ha lavorato si ritrova a dover scegliere tra il silenzio o una battaglia legale costosissima per riscuotere poche centinaia di euro – una miseria rispetto alle aspettative iniziali.

E il pubblico, ignaro, continua a credere nel fascino del grande schermo, senza sapere che dietro alcune produzioni si nasconde un sistema opaco, dove la passione per l’arte si scontra con l’incapacità o la malafede di chi dovrebbe gestirla. Non si tratta solo di errori di gestione o di imprevedibili sforamenti: è una questione di etica, di rispetto per chi investe tempo, talento e fiducia in un progetto che, troppo spesso, si rivela una truffa mascherata da sogno cinematografico.

Che fine fanno i sogni di chi crede in queste promesse? E quanto ancora dovremo tollerare chi, senza scrupoli, sfrutta la credulità e la dedizione di artisti e tecnici per arricchire se stesso o coprire le proprie incapacità, lasciando che siano altri a pagare il prezzo di una visione che non ha mai avuto fondamenta solide? È ora di alzare il velo su questi farabutti del cinema, di denunciare un sistema che, sotto la luce dei riflettori, nasconde ombre troppo lunghe e troppo oscure.


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