I fratelli De Filippo: Rubini racconta la storica compagnia d’attori

Il filone nostalgia, attinto a C’era una volta in America di Sergio Leone, pervade I fratelli De Filippo. Sergio Rubini in cabina di regia, rinunciando a mettere la sua psicotecnica recitativa al servizio della scrittura per immagini, ne tiene conto.

Lo scopo emanato nel valore evocativo dei movimenti di macchina, nell’accuratezza garantitagli dall’alto budget, con i costumi, le scenografie, il trucco messi nelle condizioni, una tantum, di coniugare al meglio diktat commerciali ed echi autoriali, va segnalato al di là dell’esito.

Tuttavia, com’è facile da intuire, le intenzioni non contano. È il risultato a fare la differenza. Ravvisabile nell’adesione di pubblico. Che determina il successo al box office. Al calore della critica però i registi assurti ad autori ci tengono. Perché fungono da passaparola per un film dedicato agli artisti della commedia dell’arte. Abituati a trasmettersi il mestiere di bottega in bottega. Di padre in figlio. O figli. Con i figli illegittimi costretti, ed è il caso dei fratelli De Filippo, a restare tra le retrovie. In trincea quindi. La guerra tra gli Scarpetta riconosciuti e i De Filippo negletti, che non potevano manco prendere l’ascensore del Palazzo dell’autocrate genitore, impersonato sulla scorta di un istrionismo di gran classe da parte del mostro sacro autoctono Giancarlo Giannini, palesa un’ottima conoscenza dell’argomento. Ora si tratta di capire se questa conoscenza sia frutto dello studio, della ricerca, dell’accanito approfondimento (e se pure così fosse giù il cappello, ma sempre solo ed esclusivamente per le intenzioni, che spingono i giovani rimandati sine die dalla società odierna aliena all’irrinunciabile diretto al merito a non distogliere lo sguardo dal sogno buttando il cuore oltre l’ostacolo per trasformarlo in realtà costi quel che costi), o se la padronanza dei ferri del mestiere, impreziositi dai soldi garantiti dalla produzione, sia frutto pure di qualcosa d’intimo. Il movimento di macchina all’indietro dell’incipit, che si allontana dal grande schermo, col mélo dalle cadenze da commedia sofisticata Nessun uomo le appartiene (No man of her own in orginale) di Wesley Ruggles e le didascalie a seguire le battute in inglese, tradisce la pigrizia delle trovate attinte all’altrui ingegno. A Tornatore in Nuovo cinema Paradiso. Ispirato a sua volta da Amarcord di Federico Fellini, Taverna Paradiso (quasi nomen omen) diretto e interpretato dal grande Sylvester Stallone e, naturalmente, C’era una volta in America. Verrebbe da dire: cominciamo bene! Con il richiamo citazionistico.

Una sorta di specchio per le allodole. Ed ergo quanto di più distante, possibile e immaginabile, dalla schiettezza dell’ispirazione ad appannaggio dei registi provvisti di estro ed empatia. Anche perché senza la capacità spingere il pubblico a entrare in empatia con il rapporto tra immagine e immaginazione il fascino della confezione dei fiocchi dura lo spazio di un mattino. Condannando il lancio del colosso sui buoni sentimenti, sulla speranza, sullo slancio dell’età verde nel secolo breve a pagare dazio al vacuo frastuono di chi, stringi stringi, vuole allungare il brodo. A parte la cornice di pregio, il quadro snuda la sensibilità rappresentativa dei film d’amore girati per un verso come se fosse un war movie e per l’altro sulla medesima falsariga degli apologhi sui sogni ad occhi aperti dei proletari decisi a invertire la rotta a suon di musica tipo i protagonisti del bellissimo The Commitments di Alan Parker? La sensazione del déjà-vu permea pure l’immediato prosieguo. Si avvertono man mano, frammisti ad alcuni cortocircuiti poetici originali, le idee attinte ad alcuni numi tutelari di sicuro richiamo. Sia pure in filigrana. Da Ingmar Bergman in Fanny & Alexander a La famiglia di Ettore Scola. Ed è lì che risiede il tallone d’Achille dell’operazione nostalgica. Appena verniciata di fresco col riferimento al vento in poppa, alla tenacia, alla passione delle rock band. La connessione alla Belle Epoque del secolo passato all’ombra del Vesuvio risulta tuttavia abbastanza forzata. Nodimeno, a differenza dell’ambizioso ma noiosissimo Qui rido io di Mario Martone, che nonostante il titolo non riesce quasi mai ad appassionare le platee a digiuno della storia del drammaturgo partenopeo Scarpetta, I fratelli De Filippo non annoia mai. Il misconosciuto Domenico Pinelli, benché sfoderi un tono di voce dall’inflessione tremolante, simile più ad Angelo Orlando, e sotto alcune sfumature al compianto, impareggiabile, Massimo Troisi, che non al Peppino De Filippo in lotta per emergere, deciso a far ridere sulle tavole del palcoscenico, accostato a un campo di battaglie, con le quinte che fungono da retrovie, timbra il cartellino con una certa disinvoltura. Sulle ali del palpabile senso d’appartenenza.

Mario Autore, dal cognome che è tutto un programma, debutta sul grande schermo, traendo partito dall’esperienza maturata da giovanissimo a teatro, aderisce all’introversione, all’arida malinconia che preme nell’aria e spinge Eduardo De Filippo ad alzare bandiera bianca, ai colpi d’ariete dettati dalla tigna, a quelli d’ala dovuti al talento di scrivere e recitare prendendo a modello lo stesso Rubini. Tanto che si ha l’impressione di vedere Rubini che interpreta Eduardo. La prova di questo debuttante, contento di mettere in scena Natale in casa Cupiello nel teatro-cinema dove prima viene proiettato Nessun uomo le appartiene d’impersonare un giovane (“tra dieci anni non potrò più fare il giovane, il vecchio lo potrò fare sempre”), merita comunque un supplemento d’applausi. Specie per lo sguardo cerbiattesco frammisto alla prontezza dei riflessi riposta nella dialettica. Anna Ferraioli Ravel (Titina De Filippo) incarna la sorella brutta fuori ma bella dentro con la supercoscienza delle attrici consapevoli del ruolo affidatole. E non se la cava affatto male. Le figure di fianco, invece, a eccezione di Giannini, assai istrionico (ma se lo può permettere) e Susy Del Giudice, misuratissima nei panni della mamma contraria alle ingiustizie di chi fa figli e figliastri, ripagata dagli applausi del finale forse troppo prossimo alla magniloquenza di maniera, sono tirate via in modo abbastanza superficiale ed esornativo. Rubini lega l’inizio e l’epilogo col match-cut visivo del piccolo Peppino. Che entra in scena come Peppino adulto. Cavando le castagne dal fuoco per lo Sliding doors in famiglia sul palco. A tenere sui carboni ardenti resta Eduardo. Mentre la ricostruzione, impeccabile, stenta ad accrescere davvero gli spazi dell’immaginazione. Piuttosto frenata. A eccezione dell’apparizione nel chiaroscuro garantita dalla valente fotografia del fenomenale Principe Totò. I fratelli De Filippo è d’altronde un film su una compagnia di attori rimasta nella storia. Ed è perciò inevitabile che lo spettacolo altrimenti di secondo piano della recitazione compensi ai cali d’ingegno dello spettacolo di primo piano delle soluzioni espressive affidate al regista. Che stavolta lascia abbastanza a desiderare: una singola scena comica col vero Peppino vale d’altronde più di tutta la sua filmografia intellettuale. Ridere, e qua ha ragione Peppino, è meglio che pensare.

 

 

Massimiliano Serriello