La Parigi da bere, sull’esempio sotto banco della Milano al centro delle banalità scintillanti promosse ad assolute tendenze di punta negli anni Ottanta, permea I passeggeri della notte dall’inizio alla fine.
Bisogna capire se si tratta d’una sorta di calvario per i patiti della geografia emozionale, per cui la componente riflessiva della location eletta ad attante narrativo conta più del carattere d’autenticità del genere documentaristico.
L’immagine rampante ed epocale dell’affascinante capitale transalpina cadrebbe nell’inane vedutismo se la coalescenza degli sguardi degli emblematici passeggeri notturni presenti sin nel titolo del film in questione e i densi movimenti di macchina non conferissero ai luoghi della memoria la forza significante dei timbri identitari. Trascendere la trama è un altro paio di maniche. Anche perché dire una cosa e indicarne al contempo un’altra con la scrittura per immagini è il contrassegno o dei registi poliedrici, che con annessi e connessi unisce rigore ed emozione, o degli autori ermetici. Ed ergo misteriosi. Che regista è quindi Mikhaël Hers? A informare i cinefili alle prime armi che è parigino provvedono i dati personali ad appannaggio della rete internet. A evidenziarne il tangibile ed emblematico senso d’appartenenza intervengono elementi segnaletici estranei alla prevedibilità degli inani luoghi comuni. La gioia collettiva, i balli, le chimere, le tangibili speranze sembrano lì per lì pagare dazio al carattere sbrigativo dei filmati d’epoca ormai triti e ritriti. Il passaggio dal ristretto mix di ragguaglio sociale ed elaborazione umanistica all’ampio margine di prospettive del cinema di finzione giova al crescendo del racconto.
Lo testimonia l’indubbia efficacia sul versante introspettivo della corsa in bicicletta all’insegna del sano entusiasmo giovanile all’aperto e delle paturnie patite nel chiuso dell’appartamento in quel di Parigi, a un tiro di schioppo dalla riva sinistra della Senna. È il personaggio di Elisabeth interpretato dall’intensa ed esperta Charlotte Gainsbourg a spostare l’ago della bilancia dalla parte della psicotecnica recitativa. Degna di nota per i silenzi eloquenti che non sarebbero dispiaciuti affatto al guru del lavoro di sottrazione Robert Bresson. Lungi dallo scomparire all’orizzonte l’irrompere del tramonto alza il tiro. Congiungendo il lavoro di Charlotte Gainsbourg sulle sfaccettare dell’immusonita Elizabeth, decisa a riprendersi la propria vita dopo il benservito ricevuto dal consorte a corto di empatia, insieme all’aura contemplativa del paesaggio. Che stimola la sete di conoscenza dei cinenauti e di conseguenza l’atto del vedere degli spettatori che viaggiano virtualmente nel buio della sala o stravaccati poi sul divano di casa per capire l’assoluta solitudine connessa all’habitat tinto con i colori vespertini del cielo e la situazione di sospensione creata dalla suspense meditabonda. Il rischio che la noia di piombo prenda il sopravvento pregiudica la ricerca d’identità a trecento sessanta gradi. La scoperta dell’alterità pure sembra andare così a caccia di grilli.
La pittoricità di per sé risulta pretestuosa se non del tutto insignificante. La trasmissione radiofonica chiamata come le anime perse nel cuore della notte mentre cercano il loro posto nel mondo, rimescola le carte e dona brio alla cornice dell’azione dei personaggi secondari. Che acquistano rilievo man mano. Gli stilemi dell’opera a mosaico collaudata da Robert Altman ed Ettore Scola aggiungono qualcosa di più consistente dei meri ricami psicologici. Il personaggio di Talulah è la chiave di volta. Il suo ingresso in scena in pianta stabile cementa il processo di superamento degli intoppi congiunti alla dimensione antropologica ed empatica dell’assunto. Gli incontri, gli scontri, le effusioni, le confusioni, i chiarimenti del caso passano attraverso il processo d’identificazione con il XIII arrondissement di Parigi. Se riuscisse, I passeggeri della notte raggiungerebbe la vetta dell’originalità ed ergo dell’approfondimento. Grazie alla complicità stabilita dalla geografia emozionale e l’esplorazione degli stati d’animo nei palazzi con le vetrate simili a Shame di Steve McQueen. L’atteso salto di qualità tarda viceversa ad arrivare. Gli spazi scandagliati alla bell’e meglio da Mikhaël Hers stentano ad aggiungere alla vividezza realistica l’opportuno cortocircuito visionario conforme alla forza immaginifica. Il carattere d’ingegno creativo nemmeno affiora. I passeggeri della notte timbra il cartellino. Ma tradisce la struttura mélo delle storielle moralistiche che allungano il brodo. Anziché andare al sodo.
Massimiliano Serriello
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.