I profumi di Madame Walberg: le fragranze di Grégory Magne

Con ogni probabilità gli spettatori del dramedy transalpino I profumi di Madame Walberg usciranno dalle sale lieti di aver appreso qualche nozione in merito alle doti olfattive, alle varie formule, alla miscela di materie sia sintetiche sia d’origine naturale, allo spirito d’iniziativa necessario ad assicurarsi gli agognati aromi, alla fragranza di vita come concetto cardine.

A otto primavere di distanza dal road-movie dolceamaro L’Air de rien, incentrato sulle traversie tragicomiche di un cantante giunto al lumicino sotto l’aspetto monetario ma in grado di stabilire un’intesa proficua con l’ufficiale incaricato di riscuoterne i debiti, il regista francese Grégory Magne offre ancora sapidi intermezzi umoristici nell’ambito dell’ennesimo viaggio di scoperta.

Dispiegato sulla scorta tanto degli stilemi della geografia emozionale, per anteporre la sete di sapere all’idea di limitatezza, quanto dell’icasticità dei caratteri agli antipodi. Inaspriti dalla differenza di classe sociale, cultura ed educazione. L’influenza esercitata in fase di sceneggiatura dall’erudito ed empatico documentario Cave of forgotten dreams di Werner Herzog, con l’arco naturale del Pont d’Arc nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi eletto ad attante narrativo capace di andare ben oltre il mero colpo d’occhio, impreziosisce l’alone di mistero che accompagna la creatrice di profumi Madame Anne Walberg prima di mettere le carte in tavola. Senza poter celare gli evidenti debiti nei confronti dei numi tutelari, da Bruce Beresford a Gabriele Salvatores, né certi deleteri schematismi. Il pubblico affezionato al timbro spiccio ed eclettico degli affreschi avvezzi a coniugare i consueti paradigmi dei melodrammi morali al sapore della satira, per sopperire ai vani pietismi dei poveri cristi in perenne bolletta e dell’atroce solitudine delle signore chic col conto in banca aureo ma l’esistenza vuota, avrà sicuramente di ché rallegrarsi. Le platee invece più avvertite storceranno il naso dinanzi a quello da tartufo dell’altera protagonista femminile. Svelta a scorgere gli ingredienti per compensare ai miasmi emessi dalle fabbriche, evitando l’interruzione dell’attività produttiva, e assorbire l’odore delle borse in pelle. La controparte maschile, garantita dall’affabile Grégory Montel, che in L’Air de rien interpretava il funzionario conquistato dal fascino dell’avventura in giro per un tour indicativo ed eccentrico, risulta in tal senso meno programmatica.

L’ardua meta dell’affidamento congiunto, per non divenire una figura di fianco nell’esistenza della figlioletta di dieci anni, le sarcastiche punture di spillo riservate alla velleità di nascondere l’imbarazzo sulla metratura dell’umile monocamera e all’improntitudine del capo dell’azienda Elite drive, abituato ad affidare gli incarichi ai dimessi autisti sotto schiaffo mentre mangia a quattro ganasce, il ritrattino ivi connesso, sbozzato accorpando i cenni d’intesa alle note intimiste, ingenerano aspettative destinate a rimanere inespresse. Il rapporto col paesaggio circostante, anziché convertire i momenti di fiacchezza dovuti all’impasse del déjà-vu in attimi di grande sensibilità, grazie all’irrompere inopinato di grotte misteriose ed effluvi quasi magici, cede infatti spazio al tran tran dello chauffeur Guillaume Favre. Costretto dapprincipio a sopportare la spocchia, le pose, l’algido distacco di Anne. Sedotto palmo a palmo – scortandola per le strade, nelle autostrade, in impolverate stazioni di servizio con un sapone liquido da favola – dall’estrema attenzione riposta nei compositi estratti odorosi, dall’enciclopedica conoscenza dei molteplici processi olfattivi, dallo stimolo ad associare gli aromi ai ricordi d’infanzia. L’esile spessore psicologico dei battibecchi, delle dispute dialettiche, degli scontati botta e risposta risente dell’intelaiatura programmatica del copione. Ad animarlo dovrebbe provvedere l’opportuna scrittura per immagini.

Viceversa l’insistito ricorso alla metonimìa, con il tormentone dell’inquadratura delle scarpe sulla falsariga di Nanni Moretti in Bianca, e alle pretenziose correzioni di fuoco, al fine d’indirizzare lo sguardo nei palpiti d’intensità del calore umano affiorato in filigrana nel sottosuolo dei gesti, stenta a risolvere le polveri bagnate degli scadenti rilievi in autentici pezzi di bravura. L’estro descrittivo che investe la sfera privata, insieme al mondo oleoso svilito dallo spettro di perdere la facoltà di distinguere le molteplici alchimie, raggiunge esiti onorevoli quando mostra i calcolati scompensi ritmici, analoghi ai passaggi a vuoto delle anime perse desiderose d’invertire l’attanagliante rotta, per mezzo di accorte angolazioni sghembe. Dentro le emblematiche stanze d’albergo, nel bancone dei bar di lusso, nell’abitacolo dell’automobile. Gira a vuoto, al contrario, nell’effigie frettolosa ed esornativa degli esterni. In cui circola un che di retorico. Alieno quindi al motore segreto della poesia. Anche nei campi lunghi, con Guillaume alla guida di un tosaerba per sbarcare di nuovo il lunario. Il gioco d’impacci strappa due o tre risate, per merito dell’azzeccato equilibrio fra gag graffianti ed empiti carezzevoli. Le parentesi romantiche dissipano gli spunti inerenti la leggerezza del tocco. Smentita dai siparietti tipici delle opere scacciapensieri. Diametralmente opposte alla virtù di conferire un respiro profondo ai dati realistici, frammisti alla molla dell’ingegno creativo che scioglie il nodo inestricabile della ragion d’essere soffocata dagli indugi ostili, inducendo così alla riflessione. A dispetto della carismatica prova dell’esperta Emmanuelle Devos (Anne), I profumi di Madame Walberg sacrifica il succo della storia in superflue leccature formali e antepone alla qualità della recitazione il bozzettismo delle pagine illustrative. Illanguidite dal risvolto fabiesco dell’happy end.

 

 

Massimiliano Serriello