L’obiettivo della regista britannica Philippa Lowthorpe con Il concorso, apologo dolce-amaro sulla liberazione delle donne disponibile dal 2 Gennaio 2021 su Premium Video on Demand, Sky Primafila, iTunes, GPlay, Rakuten TV, TIMVISION, Chili e Infinity, consiste nello spingere gli spettatori, sia quelli allergici ai grattacapi sia quelli favorevoli al cinema di pensiero, a simpatizzare per gli slanci civili dei personaggi in gonnella.
L’alacre reminiscenza dell’annus mirabilis 1970, ai tempi dell’edizione di Miss Mondo, con la nota Royal Albert Hall of Arts and Sciences di Londra assurta ad arena degli strali lanciati contro i diktat dello sciovinismo, passa attraverso l’ottimo contributo fornito dalla scenografia di Cristina Casali.
L’analisi psicologica giustapposta all’indubbia cura dei fattori visivi, garantiti pure dai vivaci ed emblematici costumi di Michele Clapton e dal valido trucco di Jill Sweeney, al servizio dell’opportuno carattere d’autenticità ed ergo dell’avvincente sospensione dell’incredulità, basta quindi ad appaiare sul serio il segno d’ammicco della forma alle doti contenutistiche? L’ambito storico disposto nell’incipit, rimestando i filmati d’epoca in bianco e nero con l’attenta tecnica luministica concepita dall’ambiziosa fotografia di Zac Nicholson, mobilita i ritagli esistenziali degli affreschi muliebri. Tinti ora d’intima mestizia ora di spensierata ed empatica esuberanza. I modi distesi ma superficiali della commedia disimpegnata si vanno perciò ad amalgamare alla bell’e meglio con lo sbandierato impegno dei febbrili esami comportamentistici conformi alle ostiche parabole sociali. Non esenti dai soporiferi pistolotti edificanti della denuncia moralistica. Il controcanto ironico, privo dell’ingegno creativo alieno ai mugugni dei film strappalacrime, dà talvolta spago ad alcuni interludi parodistici meritevoli, tuttavia, di maggior spazio. L’affrettato ed esornativo trattamento attribuito al valore terapeutico dell’umorismo consolida così l’egemonia della mera apparenza sulla debita sostanza.
Lo sviluppo del ritmo narrativo, a dispetto dei diversi climax allestiti dal montaggio alternato di Úna Ní Dhonghaíle, con le vicende familiari connesse all’humus pubblico, risente degli assidui leziosismi. Mentre l’intensità figurativa degli elementi ambientali – dalle aule universitarie ai consorzi domestici; dai luoghi di sedizione in periferia all’accreditata sala di ballo nell’elitaria zona di South Kensington – s’intreccia all’archetipo della struttura a mosaico, in una cornice scandita dall’ovvia altalena di scoramento ed euforia, lo scandaglio interiore delle usuali dinamiche esteriori gira quasi sempre a vuoto. Di conseguenza l’approfondimento dei vari dietro le quinte si perde in spunti aneddotici promossi a ritratti collettivi. Greg Kinnear nel ruolo del celebre cabarettista Bob Hope, chiamato ad animare l’attesissimo concorso di bellezza, all’oscuro dell’azione di protesta condotta dalla risoluta Sally Alexander e dall’agguerrita Jo Robinson, antepone il vacuo frastuono degli accenti coloriti alla forza significante dei semitoni. L’innesto delle ampollose musiche extradiegetiche di Dickon Hinchliffe sembra inoltre voler coprire i vuoti lasciati dalle grigie penombre. Appena abbozzate per concedere al rapido mix di spigliatezza e patetismo la parte del leone.
Con il risultato di tralignare l’agilità in limitatezza. L’esperta Keira Knightley, nelle monocordi vesti di Sally, che riesce a diventare una stimata professoressa, con buona pace dell’accusa di disturbo della quiete, stenta ad accrescere l’appeal della trama appaiando la destrezza mimica, dinanzi ad affetti e progetti da convertire in prassi, alla scoperta secondo copione dell’appassionante complicità femminile. A sfogliare appieno l’atlante dei contrasti ideologici e delle floride amicizie, sbocciate senza pagar dazio al ruvido stridore delle personalità agli antipodi, fa altrettanta fatica la pur duttile attrice irlandese Jessie Buckley nei panni di Jo. Futura ostetrica, capace di trarre partito dall’audacia dell’età verde. Lo sguardo in macchina delle eroine di turno sancisce l’happy end sulla scorta dell’ennesima strizzatina d’occhio alla furbizia fiabesca. Svelta a tramutare la caducità dei comici imbarazzi nella fierezza dei degni soprassalti d’indipendenza. E qui sta il busillis: chiudere il cerchio non equivale a trovarne la quadratura. Ed è la speranza di proporre aguzze riflessioni evitando l’impasse dei falsi stupori, sull’orlo del ridicolo involontario, a finire in una bolla di sapone. Il concorso resta davvero confinato nel fatuo terreno delle melliflue soap opere.
Massimiliano Serriello
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