Il cratere di Silvia Luzi e Luca Bellino: un saggio sullo statuto ontologico dell’immagine

Film di esordio di Silvia Luzi e Luca Bellino, Il cratere (le prime due opere della coppia di registi sono i documentari Dell’arte della guerra, 2012, e La minaccia, 2008), prima di approdare ufficialmente nelle sale era stato giustamente selezionato dalla attenta commissione della Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia.

Giustamente perché, finalmente, abbiamo un lungometraggio tricolore in cui, evitando di lasciarsi sedurre dalla tentazione di piacere a tutti i costi, si avvia una sperimentazione seria, attraverso cui indagare il divenire dello statuto ontologico dell’immagine, senza per altro perdere in termini di attrattiva, di fruibilità. Una ricerca intensa, dunque, indirizzata a far collassare la logica della rappresentazione in favore dell’emersione dell’anima dei personaggi (un padre e una figlia: i sorprendenti esordienti – legati anche nella realtà da tale legame di parentela – Rosario e Sharon Carroccia), restituita allo spettatore senza una mediazione che ne riduca la forza. La macchina da presa insiste sui volti dei protagonisti; i corpi degli attori svaniscono quasi, laddove, essendo costantemente amplificati visivamente, perdono i tratti distintivi, i confini che li delimitano: è come se, volendo vedere una tela, la avvicinassimo a tal punto ai nostri occhi da non potere più coglierne il soggetto interno. Gli sfondi continuamente sabotati da un ferreo (verrebbe da dire austero, a livello morale) fuori fuoco, gli oggetti che non di rado si frappongono tra la macchina da presa e il profilmico, “ostacolando” quasi la visione, e l’indugiare sistematico su alcuni dettagli, apparentemente non significativi, rivelano la volontà di contestare la dimensione spettacolare dell’immagine, quella, per intenderci, cui siamo fatalmente assuefatti.

È un prodigioso film sonoro, quello di Luzi e Bellino, nel quale il visibile sprofonda nell’invisibile, grazie alla dilatazione di un potente flusso orale che interrompe la dimensione cronologica del tempo, dando spazio a una durata emotiva (bergsoniana) in cui scorrono le vite interiori di Rosario e Sharon. Al Potere della Rappresentazione (visiva) subentra la Potenza della Presentazione (sonora): Il cratere, in questo senso, può essere considerato un importante saggio estetico, etico e politico. Il cinema resiste alla bulimia dello sguardo contemporaneo, non collude con la maniacalità del voyeurismo di massa, quello che vorrebbe rendere tutto immagine, finanche provocando una ricaduta idolatrica del prototipo (come il popolo d’Israele che, attendendo il ritorno di Mosè, costruì il vitello d’oro). No, si può (e forse si dovrebbe) sfuggire alla cattura dell’ordine simbolico in cui si è sempre inseriti e da cui, spesso, non si riesce a evadere, a deterritorializzarsi, per divenire una linea di fuga che provi a smarcare il muro semiotico del linguaggio (del discorso capitalista per dirla con Lacan).

La vicenda, pur assai interessante – il sogno di Rosario, divenuto ossessione, e il tormento di Sharon, che non si sente all’altezza delle aspettative sempre più incalzanti del padre – passa in secondo piano rispetto al cortocircuito della forma: quelle voci, quel dialetto (la storia è ambientata a Napoli), sfuggono alla possibilità di conferirgli un vero senso, poiché ad attraversare lo spettatore sono i significanti e non i significati. Il montaggio non opera in favore della costruzione a posteriori di una storia, che possa essere davvero riferita, poiché viene costantemente segnalato un fuori campo assoluto che non cessa di riverberare sull’intero film. Un fuori, si badi bene, che non è un al di fuori, quanto piuttosto il delinearsi di un piano d’immanenza in cui decade il rapporto dialettico dei personaggi in favore di una gioiosa indiscernibilità che rende conto della precedenza logica e ontologica dell’intersoggettività comunitaria rispetto al singolo individuo. La voce cortocircuita il soggetto della rappresentazione, lo fa liquefare, innescandone una vorticosa circolazione all’interno del movimento in-individuabile (a livello topologico) di un nastro di Möbius. Il soggetto dov’è? È altrove.

Un’ultima battuta: Sharon Caroccia è quasi più brava di Natalie Portman.

 

Luca Biscontini