Il delitto Mattarella: (Pier)santi e mafiosi

L’indubbio clou del film d’impegno civile Il delitto Mattarella prende piede quando, dinanzi al velleitario tentativo dello spettrale e angosciato Rosario Nicoletti di demonizzare l’integerrimo Piersanti Mattarella, Vito Ciancimino esce serenamente allo scoperto: sa dove il diavolo tiene la coda e che ad attenderlo ci saranno le fiamme dell’inferno. È inutile menare il can per l’aia o “babbiare”. Come si usa dire in dialetto palermitano. La condotta dell’uomo alieno agli intrallazzi nell’arco del mandato di presidente della Regione Siciliana è, all’inverso, un passaporto per l’ambìto paradiso?

L’ostentata affinità elettiva del compianto protagonista con l’appassionato sindacalista Pio La Torre, che il personaggio fittizio Biagio Schirò della serie tv Il capo dei capi definiva un brav’uomo a corto dei santi in paradiso, in quanto ateo, fornisce una risposta chiara. Sebbene non esente dalle secche dell’enfasi di maniera. Ripercorrere la storia, compiendo un salto indietro nel tempo di quarant’anni senza riuscire ad anteporre la minuzia descrittiva dell’attendibilità scenografica al labirinto d’ipotesi scandagliate dall’alacre Aurelio Grimaldi nell’omonimo libro sulla base altresì degli atti giudiziari, resta un’intenzione degna di nota. La tenuta stilistica dello stesso Grimaldi in cabina di regìa trae partito, per ammissione dell’autore, da Francesco Rosi in Le mani sulla città. Manca però un attore della levatura dell’indimenticabile Rod Steiger in grado di appaiare la profondità immersiva del metodo Stanislavskij con l’ardua ricerca della cosiddetta aletheia.

La verità sostanziale dei fatti contenuta nella parola greca alza troppo l’asticella dell’ambizione. Il pregiudizio politico, che sposta l’ago della bilancia dalla parte della corrente di pensiero contraria ai valori preservati dalla tradizione, cede il passo ad altri tipi d’intoppi. La struttura corale, che richiama alla mente sia l’intenso iter narrativo posto in essere dal caparbio e rozzo Oliver Stone in JFK – Un caso ancora aperto sia il timbro apocalittico in forma di commedia caustica condotto in porto dall’altero ed erudito Robert Altman con America oggi, offre parecchie varianti umoristiche. L’Italia di ieri appare priva di momenti folgoranti e gravida di gag d’alleggerimento. Nondimeno la qualità della recitazione risulta d’ottimo livello. L’insolita intesa sul set dei sottili interpreti catanesi con gli istrioni palermitani nel cast crea un cortocircuito capace di andare oltre i limiti del colpo di gomito. Gli attori comunicano ciò nonostante meglio con gli occhi che con le parole. L’ostentato gigionismo dell’esperto caratterista Tony Sperandeo nel ruolo di Ciancimino, restio a imbrattare con la propria saliva l’onestissimo Piersanti per non improfumarlo, a suo dire, diviene un segno d’ammicco per platee dai gusti semplici che cercano vane analogie dei prodotti di casa nostra con kolossal internazionali tipo The Irishman di Martin Scorsese.

Gli spettatori maggiormente scaltriti apprezzeranno invece i silenzi eloquenti istoriati sul volto di Leo Gullotta che, con l’ausilio delle incisive ed empatiche rughe d’espressione, sfrutta le chances fornitegli dal plot per incarnare Nicoletti. L’unico esponente della DC che avvertì la colpa di aver abbandonato Mattarella all’atroce destino. L’uso della voce fuori campo, al contrario, appare piuttosto fatuo. Le modalità esplicative, contraddette dai toni grotteschi, se non surreali talvolta, stentano ad accrescere il rapporto tra immagine e immaginazione. Il carattere d’autenticità, al di là dei timbri beffardi attinti ai ritratti sociali di Luis Buñuel ed Elio Petri, ricava vigore grazie alle reazioni mimiche catturate dalla macchina da presa. Mentre l’egemonia dell’alta densità lessicale sulla bassa densità lessicale, nonché della lingua italiana sul vernacolo, è frutto di un dipinto ovvio, viziato pure d’intellettualismo, col risultato di attribuire all’inversione di tendenza un’alternativa espansiva, sebbene discorde, il montaggio è senza ombra di dubbio la best practice dell’ennesimo apologo sul bene e il male. I match-cut visivi sopperiscono così ad alcuni vani picchi liricizzanti, connessi alla presunta lentezza ipnotica dello slow motion, e all’impasse delle deformazioni caricaturali. L’innegabile professionismo delle seconde unità assicura alle scene d’azione il giusto pathos. A sorreggere il momento in cui l’estremista reazionario fredda Piersanti provvede una cura dei dettagli troppo ostentata in ogni caso per vagliarne l’orrore. Donatella Finocchiaro nelle vesti della moglie del democristiano deciso a svuotare il vaso di Pandora, pestando i piedi alla mafia e al malaffare, attinge alla retorica dei sentimenti.

Bisognerebbe avere un cuore di pietra per non entrare in empatia col grido di dolore e di pietà. L’inane insistenza nuoce però all’idonea tensione. Il confronto in campo-controcampo del giovane Falcone col sostituto di Piersanti tiene viceversa sui carboni ardenti. Ed è un esempio lampante dell’efficacia dei semitoni rispetto ad accenti e soprassalti di rabbia, o strazio, a beneficio d’un pubblico vasto. Gli attimi persuasivi ricordano quindi il climax ora di A spasso con Daisy ora de Il braccio violento della legge. Peccato che la tendenza a dare un colpo al cerchio dei richiami sobri ed essenziali e l’altro alla botte dei ritagli d’ascendenza pasoliniana, avvezzi ad avvertire l’energia interiore del fervore morale insito nella verità difficile da dimostrare appieno, danneggi l’esito conclusivo. Il delitto Mattarella vorrebbe raggiungere il diapason mostrando nelle battute finali l’incontro del silente Giulio Andreotti con l’indifferente Totò Riina. Il lavoro di sottrazione, che prende le distanze dalla graffiante precettistica di Paolo Sorrentino ne Il divo, non basta a reggere i confronti coi Maestri. Né trascina all’applauso i cinefili poco propensi ad apprezzare l’elevazione nell’epico della crudezza oggettiva. Colpire al cuore costituiva una fulgida virtù di Grimaldi ai tempi in cui scrisse Mery per sempre. Con Il delitto Mattarella ha provato ad appaiare cuore e cervello. Un’impresa considerata inibitoria persino da Woody Allen in Crimini e misfatti. Il monito ad adoperare la testa al posto delle mani resta tuttavia identico. Ed è, tutto sommato, una bella notizia. Perché rinsalda la forza propulsiva ed etica della consuetudine. Con buona pace di qualsivoglia braccio di ferro istituzionale. A Dio piacendo.

 

 

Massimiliano Serriello