IL FILM “WALKING WITH RED RHINO” DI MARILENA MORETTI CONQUISTA LA FRANCIA

WALK

Eccoci con la torinese Marilena Moretti, una importante esponente del cinema indipendente di questa città, appena reduce dalla Francia, dove col suo film “Walking with Red Rhino” (A spasso con Alberto Signetto) ha vinto il Premio Speciale della Giuria del Documentario del Festival di Annecy.
Le abbiamo fatto alcune domande alle quali Marilena, con la sua consueta cordialità ci ha risposto.

Marilena, come e quando hai conosciuto “Alberto Signetto” il personaggio ritratto nel tuo film “Walking with Red Rhino”?

Ho conosciuto Alberto agli inizi degli anni ‘80 quando lavoravamo entrambi in Rai a Torino, facendo le nostre prime esperienze come autori e registi. Era colto, simpatico, ironico, anche se a volte un po’ troppo polemico. Era eccessivo in tutte le sue passioni, dal cinema, al cibo, agli amori. Era di una vitalità debordante… Alla fine degli anni ‘80 io me ne sono andata, ho scelto la carriera televisiva, sono finita a Mediaset, prima a Milano, poi a Roma, e ho perso di vista Alberto per oltre vent’anni. Lui invece è rimasto ostinatamente a Torino a fare il “suo”cinema.

MARILENA

Nella foto Marilena Moretti

Come ti è venuto in mente di raccontare Alberto e il suo cinema coinvolgendolo in prima persona?

L’idea di questo documentario su di lui mi è venuta a marzo del 2010. Ricordo la data perché avevo appena abbandonato Roma ed ero nuovamente tornata a vivere a Torino. Volevo riprendere i contatti con la città, con i vecchi amici, con la voglia di fare cinema che avevo messo da parte per troppo tempo. E sono andata al Cinema Massimo, dove Piemonte Movie organizzava una retrospettiva di tutti i lavori (circa 40) di Alberto. La sera della presentazione ero in sala e lui si è “confessato” in pubblico, con una sincerità quasi imbarazzante, raccontando le sue difficoltà economiche, di sentirsi ”stremato” dalla lunga lotta contro il mondo per realizzare i suoi lavori… E ho visto per la prima volta quello che considero il suo capolavoro Weltgenie, un lungo piano sequenza girato al Lingotto, prima della trasformazione, in cui poesia, visionarietà, maestria tecnica si mescolano, in un’opera che lascia stupefatti per la genialità… Bene, quella sera ho deciso che bisognava accendere una luce su Alberto, per toglierlo da quel cono d’ombra in cui era finito. Bisognava far capire le difficoltà che un autore incontra per realizzare un cinema indipendente, fuori dal mercato, non commerciale, non convenzionale… Bisognava far capire che splendida persona era. Bisognava riparare a un torto, risarcirlo per l’oblio, l’emarginazione di cui soffriva e dargli finalmente il riconoscimento che meritava. Per questo è nato WALKING WITH RED RHINO, l’ultima avventura cinematografica di Alberto, questa volta con lui come protagonista davanti alla macchina da presa, che si racconta in prima persona. E’ un lungo viaggio durato tre anni, gli ultimi tre anni della sua vita, in compagnia del Rinoceronte Rosso, il “Red Rhino”, come amava definirsi. Il rinoceronte era il suo alter ego, per dimensioni e per carattere.

SIGNETTO

Nella foto Alberto Signetto

Ad un certo punto, durante la lavorazione del film, Alberto seppe la notizia della brutta malattia che l’aveva colpito,puoi raccontarci come avete deciso di proseguire la realizzazione del film? Avete avuto dubbi se proseguire o meno, oppure è stato abbastanza “naturale” farlo?

La malattia è arrivata quando pensavo di aver concluso le riprese e mi accingevo al montaggio. E ha scompaginato i piani. Per me è stato naturale proseguire il viaggio insieme a lui e seguirlo fino alla fine. Anche per lui era necessario documentare tutto il suo percorso, era un’esperienza che voleva raccontare. Dall’irrompere della malattia infatti il tono del film cambia, diventa una sorta di video diario sempre più intimo, senza filtri, senza messa in scena. Una sorta di Nick’s Movie, il film sulla malattia e la morte di Nicholas Ray, girato da Wim Wenders.

ANNECY

Ci racconti le tue sensazioni provate in Francia alla notizia che il tuo film su Alberto Signetto aveva vinto il Premio Speciale della Giuria del Documentario del Festival di Annecy?

Essere chiamata sul palco di un festival prestigioso come quello di Annecy è una bella emozione, non lo nascondo. Ma non l’ho avvertito tanto come un premio a me come regista, ma al film, e quindi ad Alberto Signetto. Ero felice per lui, finalmente quella sala, con più di mille persone, conosceva il suo nome, sapeva della sua esistenza travagliata dedicata al cinema e del suo talento.

PeppoParolini

Nella foto Peppo Parolini

Hai già fatto altri documentari prima di questo? Se sì, di che trattavano e come hai trovato i finanziamenti per realizzarli?

Ho cominciato negli anni ‘80 a fare documentari, prima per la Rai, su argomenti di attualità, costume, musica, teatro. Ho esordito nel 1980 con un documentario sulla prostituzione maschile, Belli di notte, a cui ne è seguito un altro sui transessuali. Argomenti abbastanza tabù allora… Poi non ho più fatto niente fino al 1990, quando ho girato un corto di fiction Ritratto di Leo sui ragazzi di Barriera, prodotto da Ipotesi cinema, la scuola di cinema di Ermanno Olmi a Bassano del Grappa. E ho ripreso nel 2003 con un documentario sugli anni ‘70, La rivoluzione non è una cosa seria, autoprodotto, con un piccolo contributo di Bianca Film. Racconta una mia vicenda autobiografica, quando, nel 1971, me ne andai a vivere in Toscana in una comune hippy rivoluzionaria… Infine, nel 2007, un altro documentario autoprodotto, Dal basso dei cieli, che racconta la vita di un artista maledetto torinese, Peppo Parolini, e la Torino underground degli anni ‘80 e ‘90.

ROSSOFUOCO

Cosa significa per te fare “cinema indipendente”? Quale è la differenza con il cinema “ufficiale”, se c’è?

Fare cinema indipendente vuol dire sbattersi fino allo sfinimento per cercare i finanziamenti, che non ci sono. E quindi, quasi sempre, autoprodurre i propri lavori. Non ho mai pensato a scrivere storie per il grande pubblico, non ho mai avuto quell’ambizione. Preferisco i piccoli progetti, che posso gestire con pochi mezzi, senza dover emigrare a Roma a bussare alle porte dei grandi produttori. Probabilmente non sono divorata dall’ambizione. Mi va di fare le mie cose, anche se poi non hanno distribuzione. L’eccezione finora è stata Walking with Red Rhino, che finalmente ha una casa di produzione vera, la Rossofuoco di Davide Ferrario, con il finanziamento del Doc Film Fund della Regione Piemonte, e sta girando per i festival. Ovviamente non farà mai un soldo, come tutti gli altri miei precedenti. Per i documentari non c’è mercato, non si vive di questo. E’ una passione costosa. Ma, come tutte le passioni, è divorante, non si può smettere…

cinematorino

Secondo te, a Torino è più facile o invece più difficile che altrove, per un giovane aspirante cineasta,intraprendere questa attività? Sei ottimista per il futuro del cinema indipendente?

A Torino, checché ne dicano i giornalisti, non esiste una vera e propria “scuola di cinema”. Esiste però una vocazione al cinema del reale, un’attenzione alle storie vere, un bisogno di documentare luoghi, fatti, persone, che ci riguardano. Come posare una lente di ingrandimento per far “vedere” le cose che altrimenti non si vedono. C’è un’attenzione al cinema d’autore, non commerciale, quello che una volta veniva chiamato “cinema d’essai”, che altrove non esiste. E c’è una cultura cinematografica, sostenuta da una passione che altrove manca. Perché proprio a Torino sono nate questa vocazione, questa cultura, questa attenzione? Un po’ è un fatto di tradizione. Penso ai lavori di documentazione della guerra partigiana, con l’attività di Paolo Gobetti e il prezioso Archivio Cinematografico della Resistenza, dove si sono formati vari autori cinematografici torinesi, come Daniele Gaglianone, Jacopo Chessa, Andrea Spinelli, Tiziana Pellerano, Emanuela Piovano, Ernaldo Data, per esempio. E nel solco della tradizione documentaria ha giocato un ruolo importante anche l’esperienza della Scuola di Documentario Sociale della Cammelli Factory, diretta da Daniele Segre e Gianni Volpi, altra palestra di futuri filmaker e documentaristi doc (di origine controllata) come Enrico Verra, Rossella Schillaci, Giacomo Ferrante, e altri. Daniele Segre esordisce proprio come “fotografo della realtà”, quindi documentarista, a Torino a metà degli anni Settanta. C’è stato il periodo glorioso del Cinema Militante degli anni ‘60, il cui esponente di spicco è stato Armando Ceste, e di Ombre Rosse, nata nel 1967, rivista di cinema, cultura e rivoluzione, su cui scrivevano Gianni Volpi e Goffredo Fofi. Erano un cinema e una critica focalizzate sulla realtà, in quegli anni carica di eventi e di illusioni di cambiamento, con il coinvolgimento attivo nella lotta politica. C’è stata poi l’esperienza del Movie Club che, dal 1974 al 1984, è stato luogo di ritrovo, studio e passione cinematografica, fondamentale per la crescita culturale di Torino. Fondato da Baldo Vallero, riuniva un gruppo di appassionati cinefili, tra cui Roberto Turigliatto e Steve Della Casa. Dal Movie Club sono venute fuori idee e persone decisive per la nascita nel 1982 del Festival Cinema Giovani, poi Torino Film Festival, alla cui direzione si sono avvicendati per alcuni anni, dopo Gianni Rondolino, i suoi allievi all’università Alberto Barbera, Steve Della Casa e Roberto Turigliatto.E c’è la formazione culturale, che ancora oggi continua. Grazie alle cattedre di Storia e Critica del Cinema dell’università di Torino, che hanno visto docenti come Gianni Rondolino, Guido Aristarco, Paolo Bertetto, Franco Prono, Giaime Alonge, tra gli altri. E grazie a istituzioni come il Museo Nazionale del Cinema o l’Aiace, nata a Torino nel 1968, che continuano a educare generazioni di amanti del cinema d’autore. Per arrivare alla nascita nel settembre 2000 della Film Commission Torino Piemonte, che è diventata uno dei più importanti promotori e finanziatori del cinema italiano. E all’istituzione, sotto la presidenza di Steve Della Casa, del Doc Film Fund, primo e unico fondo pubblico per il documentario in Italia. Insomma, ce n’è abbastanza per dire che a Torino si può e si deve fare cinema, che sarà necessariamente indipendente, sia dalle grandi case di produzione, sia dalle società di distribuzione, sia dai fondi ministeriali, sia dalle logiche di mercato. Ma soprattutto sarà indipendente come pensiero.

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Nella foto Daniele Segre

Mi piace concludere con una citazione di Daniele Segre, da un articolo di Repubblica del 1990: “Ho scelto di vivere a Torino perché è una città che mi piace, una città difficile, e questo suo essere difficile mi stimola. Non è
facile, certo, fare cinema qui: si è abbastanza tagliati fuori dal mercato. Ma credo che non sia impossibile. Non è casuale che oltre ad avere la mia piccola società di produzione, I Cammelli, io abbia deciso di fondare la cooperativa Cammelli Factory. Lo scopo è avviare un vero e proprio progetto culturale. Questa è la maturità degli anni ’90. Dopo aver superato quell’ovvio protagonismo che mi ha permesso di farmi conoscere e di esprimermi, cosa di cui sento ancora l’esigenza, penso che per rimanere a Torino sia necessario essere in molti a credere nelle stesse cose in cui credo io. Altrimenti, la mia esperienza e quella dei Cammelli è destinata a morire”.

Giacomo Ferrante