L’accigliata virilità di Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, soprannominato il Gattopardo per via della raffigurazione del fiero felino che troneggia sullo stemma dell’aristocratica famiglia siciliana cui apparteneva l’autore, Tomasi di Lampedusa, dell’omonimo capolavoro letterario frutto d’una schiettezza d’ispirazione assoluta, cede adesso il passo nella versione per il piccolo schermo (in sei episodi) targata Netflix a una variante al femminile nella quale i personaggi di Concetta e Angelica sembrano avere il predominio.

Se non altro nelle prime tre puntate dirette dal regista inglese Tom Shankland. Un onesto mestierante estraneo però al magistero stilistico ed espressivo dell’erudito Luchino Visconti. Che, oltre sessant’anni or sono, nel portare l’illustre romanzo sul grande schermo, seppe cogliere appieno l’intrinseca battaglia di apparenze ed esteriorità di chi ostenta l’invidiabile blasone, conforme al modello feudale caldeggiato dal regime Borbonico, dinanzi ai valori ereditati dalla tradizione stretti d’assedio dal vento del cambiamento ravvisabile nello sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia.


Il Gattopardo. Kim Rossi Stuart as Fabrizio in episode 106 of Il Gattopardo. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2024

Relegate di fianco da Visconti le giovani donne appartenenti a classi sociali agli antipodi – Concetta fedele ai precetti impartitele in convento da educanda romantica incline ad anteporre l’etichetta persino ai palpiti suscitati dalle frecce di Cupido; Angelica, figlia di Don Calogero, grossolano ma influente sindaco di Donnafugata, emblema muliebre dell’arricchita stirpe in grado di sopperire alla mancanza di buone maniere con la camaleontica capacità di adattamento all’egemonia della materia sullo spirito – riacquistano così lo spessore attribuito sulla pagina scritta da Tomasi di Lampedusa. Quando Angelica, interpretata dalla sensuale ed eterea Claudia Cardinale sotto la guida ferma dello ieratico Visconti, entra per la prima volta nell’elitario salone di casa Salina a Donnafugata la scena, benché girata con molta più sottigliezza rispetto alla sequenza televisiva contraddistinta dapprincipio da una suspense assai di maniera, risulta piuttosto convenzionale. L’attraente ragazza di umili natali al debutto ufficioso nella cerchia incantata dei nobili esponenti dei vincoli di suolo e di sangue dell’isola natìa, anziché far “roteare intorno a sé l’ampia gonna” recando “nella sua persona la pacatezza, l’invincibilità di sicura bellezza”, si morde le labbra in preda alla palese insicurezza per la sensazione di cupa vertigine contraddetta dalla radiosa avvenenza. L’Angelica impersonata invece per Tom Shankland dalla bella modella italo-francese Deva Cassel mentre s’inchina agli stimati anfitrioni li guarda dritti negli occhi senza avvertire alcun timore reverenziale. Lanciando bensì un’intrinseca sfida. Al punto da rendere pleonastica la galanteria del Principe di fronte “al richiamo della grazia”. Il nodo da sciogliere in ogni caso non risiede nello stabilire che la scrittura per immagini di una soap opera dal budget faraonico e dallo standard popolare rispecchia meglio la densità contenutistica di un testo immortale come Il Gattopardo delle scelte compiute dall’estroso artefice d’una pellicola assurta al rango d’opera d’arte. La questione in sospeso riguarda al contrario l’approccio di Tom Shankland con le interpolazioni e il mosaico di situazioni ghermite tra le righe del riverito volume. Per poi essere allargate allo scopo d’inchiodare alla televisione a pagamento di Netflix una generazione di spettatori ingnari d’ambedue i previi modelli di riferimento. L’incipit in tal senso del primo episodio lascia segni brevi. Se non addirittura inconsistenti.

Il Gattopardo. (L to R) Saul Nanni as Tancredi, Deva Cassel as Angelica in episode 104 of Il Gattopardo. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2025

Il carrello in avanti, che tradisce la velleità di risultare febbrile, l’ovvio rilievo panteistico, concernente l’ormai stantia interazione tra individui e habitat, lo slow motion a seguire, con la roboante correzione di fuoco nelle discutibili vesti di ciliegina sulla torta per così dire introduttiva, finiscono subito, quindi, in una bolla di sapone. Incapaci di restituire l’aria del tempo. I fermenti in atto. La virtù dei paesaggi riflessivi ed evocativi di diffonderne lo slancio destinato ad avvolgere l’effigie del vetusto mondo in pericolo. Persuadono maggiormente le inquadrature che catturano la significativa immobilità marmorea dei vari monumenti. L’entrata ad effetto del Principe di Salina rientra viceversa nell’ordinaria amministrazione d’un valido professionismo ben lungi tuttavia dal suggerire nei diversi tableaux vivants dispiegati alla bell’e meglio il virtuoso rapporto tra immagine e immaginazione. Ad alzare l’asticella provvede l’alacre apporto scenografico congiunto agli scorci di vita intima e familiare. La tavola imbandita, la complicità suggellata dell’appetito del gesuita Padre Pirrone e dalle rampolle di Don Fabrizio con la battuta canzonatoria sempre in canna compensano il carattere troppo sbrigativo dell’illustrazione distinta dei consorzi domestici con l’opportuno carattere d’autenticità. Impreziosito dalla spontaneità di tratto. È l’enorme ascendente esercitato ex ante dalla vita pubblica, con le svolte epocali relative ai moti risorgimentali, a mostrare immediatamente la corda. L’intensa Benedetta Porcaroli nei panni della figlia del Principe che spasima per l’inquieto cugino Tancredi, aggregatosi ai Mille pur di non dover dipendere dalla rendita concessagli dall’affezionato e cipiglioso zio Fabrizio, si premunisce ad alzare di nuovo l’asticella. Affrancando Concetta dal carattere mite e ubbidiente, ed ergo limitante, della “sfigata” di turno. In virtù della destrezza interpretativa che le permette di approfondire il contrasto tra apparenza ed essenza. Gli occhi esuberanti, talvolta indiscreti, accoppiati alla cura dei costumi, riescono ad aggiungere al quadro decadente ed estetizzante del tramonto di un’era una freschezza impensabile dapprincipio. L’autoconsapevolezza che ne guida le composite reazioni mimiche, gli indugi, il trasporto sincero manda a carte quarantotto gli eloquenti silenzi dell’improntitudine programmatica di Kim Rossi Stuart nel ruolo del Principe. Convincente nel conferire al racconto una piega ironica degna di nota quando Don Fabrizio al ballo della liberazione costringe l’ufficiale del Nord ad abbandonare il rigido contegno osservando man mano altri cavalieri sottrargli la chance d’invitare la signorina Concetta a dimenarsi insieme nella danza.

Il Gattopardo. (L to R) Alessandro Sperduti as Bombello, Benedetta Porcaroli as Concetta in episode 105 of Il Gattopardo. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2025

Il ricordo per i cinefili di provata fede della performance sfumata, toccante ed eclettica di Burt Lancaster alle prese con il malinconico seppur superbo profilo del Principe di Salina traligna l’impegno profuso da Kim Rossi Stuart per aderire al blasonato gentiluomo avvezzo a inghiottire amaro e sputare dolce, salvo dire infine la propria fuori dai denti, in una prova scolastica. A corto dei guizzi immedesimativi ad appannaggio degli attori di calibro internazionale. L’esecuzione al pianoforte del “Va, pensiero” di Giuseppe Verdi connette le aspettative per il secondo episodio al mix d’illusione e disillusione caro a Tomasi di Lampedusa. Tom Shankland, sulla base delle precedenti esperienze per la televisione britannica in The Children e I miserabili, sviluppa in modo disuguale i divari generazionali, le tensioni sociali, il bon ton che cela il risentimento, incline a covare sotto la cenere, battendo per di più strade già largamente sfruttate. Con il risultato di presentare deleterie scollature legate all’impasse d’allestire a memoria, con una sorta di pilota automatico, momenti ora gravi, ora divertenti, ora soggetti al tremito di delusioni ed emozioni diverse, ora all’ebbrezza d’invertire rotte poco gradite. Al posto dello sfacelo morale di un assetto politico, sociale ed esistenziale ormai ritenuto antidiluviano prende piede lo scontro di personalità, all’inizio in filigrana, dopo chissà, di Concetta con Angelica. Che strega all’istante il nobile libertario in auge Tancredi. Che il volenteroso Saul Nanni incarna in chiave troppo gigionesca. In antitesi con l’impeccabile misura di Alain Delon nel monumentale film entrato di diritto nella fabbrica dei sogni. La mini-serie de Il Gattopardo stenta a compiere viceversa un giro risolutivo di boa per evitare che l’infecondo timbro didascalico sciupi gli attimi culminanti. Dopo le prime tre puntate, disponibili su Netflix a partire dal 5 Marzo 2025, il pubblico con meno pretese, scalzate dall’intrigo trito e ritrito delle telenovole allergiche ai dispendi di fosforo, conoscerà l’evolversi della sfida al femminile. In attesa di scoprire la vincitrice morale. Frattanto i puristi sperano che Giuseppe Verdi non si rivolti nella tomba sentendo scomodare Va, pensiero in una soap-opera intenta, stringi stringi, ad acciuffare l’interesse delle platee semplici sconfessando qualsiasi doverosa contemplazione.


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