Spigliata ed empatica sia davanti alla macchina da presa –nelle vesti di attrice assai duttile, diretta persino dall’aedo della working class anglosassone, Ken Loach, in Terra e libertà, apologo sulla guerra civile spagnola – sia in cabina di regia, preferendo gli stilemi dell’intrigante mélo introspettivo a quelli dell’ammiccante dramedy, la madrilena doc Icíar Bollaín sembra abbia voluto invertire la tendenza.
La sua ultima fatica, Il matrimonio di Rosa, ne attesta appieno le interpolazioni poste in essere rispetto alle abituali scelte espressive per scandagliare l’emblematico rapporto sentimentale della protagonista, ormai stanca di vivere a Valencia, col villaggio limitrofo di Benicasim. Sul mare. A nord di Castellón de la Plana.
Il centro-sud della penisola iberica era divenuto in Ti do i miei occhi una location capace d’ispirare al meglio l’alacre Icíar per aggiungere in filigrana la forza significante dei paesaggi riflessivi all’impressionante realismo, ai temi dell’atroce violenza sulle donne e dell’ambita rinascita. Compromessa dal deleterio sentimento di fiducia in un’utopica espiazione. Adesso, dopo l’incipit in chiave onirica, con Rosa che corre per le strade della città portuale subendo nelle esornative aree all’aperto la pressione di parenti e amici per tagliare il traguardo in solitaria, i paesaggi appaiano privi dell’approfondita funzione diegetica conforme alla geografia emozionale. La resa incondizionata degli esterni ai cospicui interni – sul posto di lavoro, dove Rosa si occupa dei costumi per un film a basso costo, nell’appartamento in cui il padre vedovo Antonio vorrebbe trasferirsi per vincere la solitudine, nella piccola scuola gestita dal fratello Armando, giunto ai ferri corti con l’indocile prole e con la disamorata consorte, nelle sale-congressi frequentate dalla sorella Violeta, addetta alle traduzioni, ma schiava, seppur sottobanco, dell’alcol – manda, quindi, a carte quarantotto i campi lunghi iniziali. Che non colgono, né in prassi né in spirito, il punto d’incontro tra il fiume Turia, il Mediterraneo, gli edifici gotici e l’influenza della modernità riverberata nei quartieri del centro. Al contrario di Cameron Crowe in Vanilla Sky. Bravo ad afferrare nella sequenza del miraggio di Tom Cruise alias David Aames i tratti distintivi del rilevante surrealismo e l’anima nascosta della New York deserta. Lontano dal superattico del miliardario in crisi. Fin qui, comunque, nulla da eccepire: il cinema da camera riflette l’altalena degli stati d’animo pure tra quattro mura. Senz’alcun bisogno di ricorrere a un teatro a cielo dalla specifica identità e dal timbro particolarmente evocativo.
Gli bastano e avanzano i guizzi stilistici dei direttori d’orchestra ricchi d’ironia ed estro. Basti pensare a Luis Buñuel nel cult movie L’angelo sterminatore. Icíar, però, non arriva neppure alla caviglia del compianto maestro autoctono sul versante del carattere d’ingegno creativo. E in quanto al valore terapeutico dell’umorismo – che costeggia dai tempi di El olivo, al pari dello slancio romantico ed etereo azzardato in Katmandú, un espejo en el cielo – commette l’errore e l’orrore di rimpiazzarlo con un surrogato ai limiti della macchietta. Dapprincipio gli squilibri della trama, redatta a quattro mani insieme ad Alicia Luna, non pregiudicano troppo, in ogni caso, l’efficacia delle soggettive stranianti, inasprite a mestiere dall’uso del grandangolo, i movimenti di macchina a schiaffo, in grado di cogliere l’angoscia malcelata di Rosa, costretta a dedicare agli altri lo spazio delegato in precedenza a coltivare le legittime aspirazioni, la tensione di certe scene impreziosite dagli elementi ambientali al chiuso, le pieghe psicologiche rinvenibili nella relativa alienazione, l’idonea varietà cromatica. Purtroppo la scelta d’ingraziosirsi gli spettatori dalla lacrime facile, abituati a tirar fuori il fazzoletto a ogni piè sospinto anteponendo le pleonastiche astuzie da soap opera al compiuto processo d’identificazione garantito dalle audaci panoramiche oblique nelle costrittive gabbie contraddistinte dal sudore della fronte e dall’incombenza domestica, dà l’iniquo benservito alla virtù d’inventare figure lunari ed empiti immaginifici. Gli scorci commoventi diventano lagne permanenti, con l’insoddisfatta figlia Lidia, trasferitasi a Manchester, mamma di due bei gemelli, attanagliata dal rimpianto per i sogni andati a farsi friggere, finendo presto per tralignare il polivalente supporto della sagacia parodistica nelle sequenze di gruppo in un mero bozzettismo folcloristico.
L’egemonia dell’intimismo straziante sulla scarsa varietà degli sfondi del luogo natìo dell’adorata mamma di Rosa e sui ristretti siparietti caricaturali, con Antonio che mangia a sette ganasce mentre Violeta beve come un alpino, sottrae nerbo ed energia alle situazioni spiritose. Il proposito di riaprire la vecchia sartoria di famiglia, di mettere in piedi uno strambo ed ermetico matrimonio, pronunciando a se stessa la promessa di non rinunciare più alle legittime ambizioni per restare fedele all’indole oltremodo disponibile, d’inseguire i progetti di ragazza a quarantacinque anni, anziché chiudersi nel proprio bozzolo e piangere sui cocci infranti, paga dazio ai luoghi che innescano l’azione narrativa. Impedendole di raggiungere l’acme. Il negozietto con i modelli, i manichini, la stoffa sfugge velocemente all’attenzione del pubblico. Persino di quello propenso ad andare in brodo di giuggiole per i desideri di riscatto coltivati in nome dei vincoli di sangue e di suolo. La spiaggia di Benicasim, con buona pace della repentina crescita morale di Antonio, Violeta e Lidia, diviene teatro dell’inane farsa. Invece dell’atto conclusivo in onore alla libertà femminile. Celebrata dalla carezzevole colonna sonora. L’apporto del cast resta d’alta classe: Candela Peña nei panni dell’immusonita Rosa è assai convincente anche nei catartici sorrisi. Da copione. Sergi López (Armando) inculca sin dalla leggerezza introduttiva la profondità del malessere, velato dall’apparente cinismo. Nathalie Poza (Violeta) si guadagna il podio. Conciliando poli opposti: buffoneria e sensibilità. Peccato che a Icíar Bollaín, al timone di comando, il connubio non riesca affatto. Il matrimonio di Rosa prende, infatti, una bella cantonata nell’accostare alla carlona il vezzo di ridere e sbirciare alla cognizione dell’aura contemplativa.
Massimiliano Serriello
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