La prima indiscussa protagonista de Il mio corpo, del regista Michele Pennetta, è una immutabile e abbandonata Sicilia del 2020 che, nel suo essere così lontana dalla tranquilla autonomia economica, si mostra da subito come luogo delocalizzato ai margini di un universo che non si cura della sua tremenda condizione.
In questo entroterra arido, immobile e arso dal sole vivono, destinati a non incontrarsi mai, Oscar e Stanley. Ciascuno emblema di una condizione tanto reale quanto ignorata.
Oscar è un ragazzo di quindici anni. Ha una parlata stretta stretta. La madre lo ha abbandonato e al piccolo siciliano non resta che spendere intere giornate a raccogliere rifiuti in mezzo a discariche e viadotti aiutando, insieme al fratello più grande, il padre rigattiere. Stanley è un immigrato nigeriano lontano dalla sua terra. Per vivere dà una mano in chiesa, cura le vigne, pascola le pecore. Divide un appartamento con il suo amico Blessed, con cui spesso litiga per la sua scelta di restare in Sicilia, nonostante abbia ottenuto un regolare permesso di soggiorno che gli consentirebbe ti tentare la fortuna altrove.
Oscar e Stanley non si conoscono, le loro vite sono destinate a sfiorarsi solo per un momento. Eppure, nella loro lontananza e solitudine, condividono qualcosa. Chiusi nei territori dell’isola centrale, entrambi sono prigionieri di un’esistenza senza speranza e senza futuro, immobili in una terra selvaggia, dove i loro corpi vivono giornate sempre uguali, privati di qualunque prospettiva benevola. La sensazione di claustrofobia che ne deriva e che arriva dritta, come un pugno, allo spettatore diventa più soffocante via via che si va avanti perché, Pennetta non regala la clemenza di un happy ending.
Il mio corpo diventa così la fotografia amara e ineluttabile di un declino inesorabile: quello di una Sicilia rifiutata e dimenticata che sembra destinata a non cambiare.
Valeria Gaetano
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